PARLI COME BADI! QUALCHE RIFLESSIONE SUL LINGUAGGIO NEL MONDO DEL LAVORO.

Immagine di יוחנן לקיצביץישראלי, יליד יוגוסלביה, 1943 - יוחנן לקיצביץ, CC BY-SA 3.0, Link

DI CRISTINA GAGGIOLI

Prendo spunto da una battuta niente affatto superficiale del grande Totò per introdurre, con poche riflessioni generali, un tema che reputo cruciale e che mi sta molto a cuore in virtù di 36 anni di lavoro in aziende metalmeccaniche: come il linguaggio sia un elemento cardine anche nel mondo del lavoro.

Premetto con molta chiarezza che le considerazioni che seguiranno sono frutto solo di un interesse personale per l’argomento, di spirito di osservazione e di molta esperienza fatta sul campo, ma non derivano da studi specifici.

Queste poche righe costituiscono quindi solo una nota, evidenziata in giallo fosforescente data l’importanza della questione, da inserire in agenda per ricordare la necessità di avviare una discussione il più possibile allargata, in una sede reale o virtuale ancora da definire e con l’indispensabile contributo di esperti.

Nell’enciclopedia Treccani online si parla di linguaggio come “forma di condotta comunicativa atta a trasmettere informazioni e a stabilire un rapporto di interazione che utilizza simboli aventi identico valore per gli individui appartenenti a uno stesso ambiente socioculturale”, mentre il vocabolario Zanichelli lo definisce, tra l’altro, come la “capacità propria della specie umana di comunicare”.

La più evoluta delle forme di comunicazione varia a seconda dell’ambiente in cui si sviluppa e va analizzata considerando le varie componenti di quell’ambiente. Nel mondo del lavoro si può partire dai rapporti più semplici e diretti – quello, per esempio, tra titolare e dipendente di una piccola impresa artigiana – per arrivare a quelli, assai più complessi, che caratterizzano le grandi aziende, nelle quali entrano in gioco elementi di ulteriore complessità definiti dai cosiddetti organigrammi, con l’aggiunta degli altri “attori” (in “aziendalese” stakeholder) ovvero clienti, fornitori, sindacati.

In questa ridda di soggetti coinvolti gli interessi sono molto diversi e nettamente suddivisi in tre macro tipologie che, tagliando un po’ con l’accetta, sono l’interesse di impresa (massimizzazione del profitto, riduzione dei costi), quello del cliente (acquistare il miglior prodotto al prezzo più basso) e quello delle lavoratrici e dei lavoratori (retribuzione e difesa dei diritti contrattuali), che dovrebbe essere perseguito – ma sappiamo che non sempre accade – anche grazie al ruolo di intermediazione esercitato dal sindacato.

Affinché il dialogo tra le parti sia il più possibile corretto e simmetrico gioca un ruolo fondamentale la questione culturale: è ovvio che gli strumenti culturali debbano essere il più possibile equivalenti per evitare la prevalenza di una parte sull’altra: se, durante una partita di calcio, in una squadra si giocasse con le scarpe e nell’altra squadra a piedi scalzi, quest’ultima squadra, a prescindere dalle doti atletiche e calcistiche – fuor di metafora: le capacità cognitive – partirebbe nettamente svantaggiata in quanto priva delle “scarpe”, ovvero dell’attrezzatura culturale vera e propria, che permette di correre da una parte all’altra del campo senza essere da meno dell’avversario-interlocutore.

La comunicazione efficace, non solo fra soggetti in qualche modo antagonisti ma anche fra soggetti che stanno dalla stessa parte, dovrebbe avere l’obiettivo comune di essere chiara e inequivocabile, altrimenti sorge il dubbio più che legittimo che il vero obiettivo sia la non chiarezza, arma micidiale e subdola usata a danno di chi non ha gli strumenti culturali – e quindi politici – adeguati per capire e sostenere un confronto alla pari. Questo pericoloso espediente non è messo in pratica solo dalle aziende, il che sarebbe in qualche modo giustificato da un interesse noto e coerente col ruolo, ma purtroppo anche dai sindacati confederali, che hanno abdicato al loro ruolo adottando una comunicazione non chiara e ambigua verso chi dovrebbero rappresentare, con conseguenze disastrose in termini di svendita di quanto conquistato in decenni di lotte: gli ultimi contratti costituiscono un triste esempio di come lavoratrici e lavoratori siano stati ingannati nonostante tantissimi di loro non ne siano consapevoli.

La sociolinguista Vera Gheno, in un articolo dal titolo “L’italiano professionale che ingabbia il lavoro”, pubblicato online sul sito web Senzafiltro (https://www.informazionesenzafiltro.it/litaliano-professionale-che-ingabbia-illavoro/) nel novembre 2019, scrive: “[…] agli alti livelli le stampelle [comunicative] sono spesso due: l’inglese, o meglio, l’inglesorum, che funziona esattamente come il latinorum del famoso Azzeccagarbugli descritto dal Manzoni nei Promessi Sposi (cioè un inglese usato non quando serve – nel qual caso è sacrosanto – ma semplicemente per “darsi un tono”), e il tecnicismo estremo, che ovviamente vira verso l’incomprensibile. Facciamo alcuni esempi: quando si parla di how to o di reason why o di forecast del quarter, ma anche di bail in e bail out delle banche, non si fa in realtà nulla di particolarmente diverso dallo scrivere “obliterare il titolo di viaggio” alla stazione o “si pregano di conferire le deiezioni canine nell’apposito contenitore” lungo una strada del centro cittadino (tutti esempi reali): in entrambi i casi si esclude, più o meno scientemente, una parte del proprio potenziale uditorio dalla comunicazione”.

La lingua quindi, nella sua varietà di registri che è importante saper utilizzare, è strumento fondamentale per l’emancipazione sociale e soprattutto politica nei luoghi di lavoro. Nel mondo ideale la politica è intesa nel senso più alto del termine, cioè il governo e la cura di ciò che riguarda il bene comune – la polis, ovvero la città, sede della comunità – e che perciò compete a tutte le cittadine e i cittadini di quella comunità. Ma nel mondo reale, purtroppo, politica è sinonimo di gestione del potere; i luoghi di lavoro non si sottraggono a questa logica perversa, per cui un la conoscenza e l’uso consapevole del linguaggio da parte dei soggetti deboli – i lavoratori e, ahimè, ancor più le lavoratrici – diventa strumento potente di difesa dei diritti e di contrattazione di condizioni di lavoro migliori.