DI GIUSEPPE TIANO & MARIO OCCHINERO
Nel 2019 in Calabria in agricoltura risultano essere stati impiegati circa 100mila tra lavoratrici e lavoratori (dati Inps) registrando una flessione rispetto all’anno precedente intorno a 6500 unità.
Di tutta questa forza lavoro 74 mila risultano essere italiani, quelli comunitari invece sono 12mila e vivono stabilmente in territorio calabrese, mentre la restante forza è quella proveniente dai paesi extraeuropei che nell’ultimo quadriennio risulta essere in forte crescita con un incremento che supera le 2500 unità. Oltre i tre/quarti della produzione agricola calabrese viene messa in vendita e tra i prodotti che finiscono sul mercato che quasi sempre viene gestito dalla Grande Distribuzione Organizzata su tutti prevalgono gli ortaggi, a seguire gli olivicoli e poi ci sono quelli zootecnici e agrumicoli che in percentuale viaggiano quasi in pareggio.
Anche in Calabria come si registra in più parti d’Italia la crisi del settore agricolo si fa sentire e le produzioni che ne risentono per la maggiore sono quelle orticole e agrumicole. Questa crisi come la storia insegna viene aggredita abbassando i costi di produzione e chi ne paga le conseguenze è la manodopera sempre più a basso costo, supersfruttata e a volte ridotta anche in schiavitù.
Le braccia che vengono richieste per la maggiore sono quelle dei migranti regolari e ancor di più se gli stessi risultano essere “clandestini”. Tantissimi infatti partono per recarsi al lavoro dalle Tendopoli, dai ghetti e dai Centri di Accoglienza in prevalenza CAS.
In questi luoghi infernali le persone non dovrebbero assolutamente risiedere in quanto hanno il diritto di vivere condizioni di vita dignitose. Questi luoghi non hanno ragione di esistere ma anche su questo argomento c’è tanto da fare rispetto alla mancanza di politiche di accoglienza diffusa.
C’è bisogno di regolarizzare queste persone che sono costrette ad entrare in maniera obbligata in misure di protezione internazionale anche quando non ne hanno bisogno e perché a giusta ragione non si ritengono dei profughi.
Su quanto detto sempre con dati ufficiali non sono tracciabili oltre 10mila unità (dati Inps) in quanto senza permessi di soggiorno, senza residenza e senza regolari contratti di lavoro. Sono gli invisibili di questa terra come ormai in tanti si stanno abituando a definire. Le loro braccia vengono utilizzate per la raccolta agrumicola nelle piane di Sibari e di Gioia Tauro e lungo la costa tirrenica che va da Amantea a Vibo Valentia dove intensa è la produzione della famosissima cipolla rossa.
Nella Piana di Sibari tra donne e uomini sono all’incirca in 20mila ad essere impegnati nelle diverse coltivazioni e più della metà sono di provenienza rumena, bulgara, polacca, albanese, ucraina, maghrebina, pachistana, asiatica e africana. Le attività principali sono le coltivazioni di frutta, prevalentemente drupacee ed agrumi, ma anche di verdure e ortaggi, che dopo essere confezionate o trasformate raggiungono tanto i mercati del nord Italia quanto quelli del nord Europa attraverso gli opprimenti metodi che contraddistinguono il sistema della G.D.O.
Nella Piana di Gioia Tauro le domande di disoccupazione agricola presentate sono state circa 25mila di cui circa 15mila sono di cittadini italiani, 6500 di operai comunitari e 3500 di extra UE. Quest’ultimi sono donne e uomini provenienti per la maggior parte dal Mali, dal Senegal, dalla Guinea, dalla Costa d’Avorio e dal Gambia sono utilizzati per la raccolta delle arance, delle clementine, dei kiwi e dei limoni. Anche qui a dettare le regole e a farla da padrona è la Grande Distribuzione Organizzata e non ultima la criminalità organizzata. A ciò si aggiunge il fenomeno pervasivo del Caporalato che gestisce l’intermediazione illecita di manodopera.
Da fine febbraio inizi di marzo oltre alle asfissianti condizioni determinate dalla GDO in virtù delle regole dell’economia di mercato per i piccoli produttori e per le lavoratrici e i lavoratori occorre fare i conti con il nuovo elemento dirimente rappresentato dalla pandemia che ha messo fortemente a rischio la vita umana, la salute, il lavoro, i diritti, le tutele, gli aumenti salariali e conseguenti condizioni migliori di vita.
Con le dovute eccezioni sia nella Piana di Sibari che in quella di Gioia Tauro esiste una classe padronale che pur di risparmiare sul costo del lavoro è sempre disposta a colpire i diritti sindacali delle lavoratrici e dei lavoratori in quanto favorita dal ricatto occupazionale.
In aggiunta a ciò aderire a una qualsiasi iniziativa sindacale può costare settimane di lavoro e a volte anche restare disoccupati.
In diverse aziende lo sfruttamento assume addirittura il volto del lavoro interinale attraverso la cosiddetta Cooperativa dove chi veste i panni del Presidente di norma è il vecchio caporale.
In questa realtà il sindacato trova enormi difficoltà ad estendere le proprie tutele, in una situazione di totale assenza dei diritti e dove lavoratrici e lavoratori sono fortemente condizionati nel chiedere di essere rappresentati e tutelati a causa di rappresaglie dei datori di lavoro, della criminalità organizzata e dagli “amici” che gli hanno trovato il posto di lavoro.
In aggiunta nonostante i Contratti Collettivi applicati in agricoltura siano due, quello Nazionale e quello Provinciale, molte volte gli stessi vengono superati da Contratti Aziendali peggiorativi sia in termini economici che di diritti, di tutele e sicurezza.
Fortunatamente ci sono anche lavoratrici e lavoratori che hanno denunciato la latitanza di quei datori di lavoro che non rispettano neanche i diritti basilari come il trasporto, l’alloggio e la disoccupazione agricola, trasformando di fatto i braccianti in carne da macello in quella che è un sistema-filiera dello sfruttamento nella Grande Distribuzione Organizzata.
Va assolutamente avviato un percorso di organizzazione per la sindacalizzazione dei lavoratori che coinvolga tutte le fasi della filiera: dai semi al consumatore passando per la raccolta, il trasporto, la trasformazione, fino ai banchi dei mercati rionali e dei supermercati. Un obiettivo che potrà essere perseguito cercando di costruire alleanze con quei produttori che lottano per la sovranità alimentare nel rispetto dei diritti delle lavoratrici, dei lavoratori e dell’ambiente
I braccianti italiani e stranieri con i piccoli produttori, contribuiscono in modo strutturale e determinante all’economia agricola del Paese rappresentando una componente indispensabile per garantire i primati alimentari del Made in Italy nel mondo su un territorio dove però va decisamente assicurata la legalità per combattere gli inquietanti fenomeni legati al malaffare e alla malapolitica che umiliano lavoratrici e lavoratori mettendo in pericolo la loro vita e il loro lavoro e che gettano un’ ombra su un comparto che ha scelto con decisione la strada dell’attenzione alla garanzia di un reddito e alla sicurezza alimentare e ambientale.
Contro ogni forma di sfruttamento e di discriminazione.
E se è vero com’è vero che nessuno è in grado di salvarsi da solo occorre attivare nell’immediato forme di resistenza e mutualismo cooperativo che siano capaci di praticare un percorso sempre più condiviso e teso a garantire produttori, lavoratrici e lavoratori, cibo, consumatori e ambiente.