DI SERGIO BELLAVITA
Quello che più colpisce nel discorso programmatico precedente alla fiducia della neopresidente del consiglio Giorgia Meloni è il tono e l’atteggiamento del suo corpo nelle parti a braccio del suo discorso.
Quasi libera dall’obbligo dell’etichetta e dalla necessità di rassicurare riemergeva, con un impeto, l’animo borgataro e violento della destra eversiva.
Il resto è perlopiù continuità sul piano economico e rottura sul piano dei diritti civili e umani, del ruolo dello stato nei confronti del collettivo e dell’individuo. In particolare, il suo incipit d’esordio sulla libertà d’impresa appare raggelante in un paese che conta mediamente tre morti al giorno sul lavoro e con un livello di evasione fiscale da terzo mondo.
Tuttavia, al di là dei toni e delle sue mal sopite pulsioni, sarebbe un errore utilizzare l’aggettivo fascista.
Il fascismo è sempre stata l’ultima arma del capitale nei momenti di crisi e di avanzata della sinistra, quando il potere era in bilico.
Oggi nessuna di quelle condizioni è data. Non c’è alcun dualismo di potere, nessuna reale forza organizzata sul piano sociale mentre su quello politico l’opposizione è disfatta o complementare.
Quella che abbiamo di fronte è una nuova forma di autoritarismo che si nutre della profonda crisi dell’occidente, del suo modello economico politico e sociale, delle sue forme di rappresentanza dei corpi intermedi liquefatte nell’ultimo trentennio per consegnare così quello che fu il blocco sociale alla subcultura di massa, all’individualismo.
Ciò che ha portato la Meloni al governo non è la legge elettorale banditesca o il mancato accordo del centrosinistra. E’ un ulteriore punto di arrivo di un lungo e contraddittorio processo politico e sociale che ha almeno 40 anni. Solo un punto di arrivo, forse non di lungo periodo in quanto la velocizzazione dei processi e l’impossibilità, per chiunque, di rispondere ai bisogni sociali senza rovesciare il paese, potrebbe vedere ben presto tramontare Giorgia e il suo inguardabile governo. Tuttavia, bisogna essere chiari su un punto: le elezioni e i processi politici e sociali quasi mai corrispondono.
Ovvero l’opposizione al governo della destra può condurre a un cambio di colore del governo ma senza necessariamente intaccare il processo di smottamento a destra della società.
Sono almeno trent’anni che, a prescindere dal colore del governo, assistiamo alla progressiva distruzione del tessuto sociale dell’antagonismo, dei rapporti di forza nei luoghi di lavoro.
O governa la destra o governa il centro sinistra la società va a destra ed in particolare le classi popolari. Se in parlamento si può levare ancora qualche voce di solidarietà e uguaglianza non lo si deve al voto delle periferie, della classe operaia, del sottoproletariato diffuso nelle grandi città.
Il voto del centro delle grandi città, per assurdo, rischia di apparire un argine a quello reazionario dei quartieri popolari. Ovviamente si guarda a un fenomeno complesso sapendo che le ragioni della disaffezione o peggio della repulsione delle classi popolari verso la sinistra fondano innanzi tutto su responsabilità politiche precise della sinistra stessa, comunque aggettivata. Tuttavia, sarebbe illusorio considerare questo l’unico fattore di un fenomeno che è globale anche per la ragione che i tentativi ripetuti di ricostruire a sinistra ad ogni “tradimento” della sinistra istituzionale sono sempre falliti clamorosamente. Se si guarda alla storia del nostro paese dalla caduta del muro di Berlino ad oggi in realtà c’è stato solo un processo (tutt’ora in corso) di progressiva cancellazione dell’antagonismo nelle sue diverse forme dal quadro politico e sociale. Un processo che ha conosciuto frenate e contraddizioni ( i movimenti dei primi anni 2000) ma che è proseguito inarrestabile nelle sue dinamiche di fondo.
I processi sedimentano, accumulano e trasformano continuamente. Il fatto che l’instabilità sia l’unico dato certo della situazione politica del vecchio continente la dice lunga sul grado e sulla profondità di questa crisi.
Ora il tema è come non solo costruire una opposizione al governo Meloni che si ponga quantomeno l’obbiettivo di aggregare e consolidare forme di resistenza in rete tra loro.
La costruzione della manifestazione di Bologna dello scorso 22 ottobre rappresenta, da questo punto di vista, un vero e proprio laboratori politico che va sostenuto e alimentato.
Occorrerebbe ripensare linguaggi e modalità del conflitto, tema assai complicato e non certo innovativo. Tuttavia, appare impossibile immaginare che le forme ormai vetuste di ciò che resta della sinistra radicale siano adeguate alla dimensione epocale della ricostruzione.
Il nuovo va indagato senza pregiudizi, settarismi e competizioni fuori luogo mettendo al centro, su tutto, la questione ambientale.
Se il tema tempo fa era l’unità a sinistra (politica e sindacale), oggi siamo certi, dopo averla in parte sperimentata, che non è più sufficiente.
Ri-costruire nuovi rapporti di forza sociali significa tornare ad essere parte della classe nella sua forma data. Non in quella immaginifica radicale, senza macchia e votata al socialismo, che non esiste semmai fosse esistita nel passato.
Tornare a essere parte di quella classe carica di contraddizioni che quotidianamente varca i cancelli delle fabbriche, degli uffici.
Anche in quella che chiede al sindacato di difenderlo senza lottare, di non dichiarare guerra al padrone. In quella cioè che ha paura di perdere ciò che ha e che spesso non è necessariamente misero.
Le grandi trasformazioni del mondo del lavoro degli ultimi decenni consegnano un quadro profondamente mutato e immaginare una riedizione del conflitto sulla sola centralità dei luoghi di lavoro porterebbe in una direzione sbagliata.
Se si vogliono fare i conti con la realtà per cambiarla, senza aderirvi, occorre guardarla senza paura di cadere trascinati nel corporativismo e nell’aziendalismo.
Una nuova alfabetizzazione politica, nuovi luoghi di aggregazione, nuova soggettività.
Non sarà una scintilla sulla legna bagnata a far scoppiare l’incendio ma un lavoro di lunga lena e di lungo periodo.