LA DEFORMA RIFORMA MELONI-CASELLATI E L’OPPOSIZIONE

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di Fabrizio Burattini

Torniamo sul progetto autoritario contenuto nel disegno di legge sul premierato presentato qualche giorno fa da Giorgia Meloni e dalla sua ministra delle Riforme, Elisabetta Casellati.

Un governo postfascista ma continuista

Fino a qualche settimana fa, l’azione di governo del primo esecutivo italiano a guida neofascista si era caratterizzata soprattutto per il suo “continuismo”.

Sul piano economico, sia la prima legge finanziaria (legge n. 197 del 2022) sia il progetto per la nuova legge di bilancio, da pochi giorni all’esame del Senato (A.S. 926), hanno voluto rispettare diligentemente le norme comunitarie e i vincoli finanziari che il colossale debito pubblico impone al paese, fino alla apparentemente paradossale scelta di tradire clamorosamente le “promesse” più impegnative fatte dai vari partiti di destra durante la campagna elettorale di un anno fa.

Paradigmatica è la decisione, contenuta appunto nella bozza di nuova legge di bilancio, che peggiora ulteriormente le regole per l’accesso alla pensione, in totale contrasto con il punto del programma elettorale della coalizione di destra che si impegnava ad abrogare la legge Fornero del 2011.

Più in generale, sul piano sociale le iniziative del governo non hanno messo in seria discussione la prassi che aveva informato l’attività dei precedenti governi a guida tecnica o di centrosinistra.

Quanto al trattamento previsto per i migranti, l’azione del governo di destra non era poi così distante da quella del governo Gentiloni-Minniti del 2017-18 o da quello del governo Conte-Salvini-Di Maio. Tutt’al più si differenziavano nello stile comunicativo: più demagogico quello del governo Meloni, più politically correct quello dei precedenti governi.

Per non parlare della politica estera. L’atlantismo dell’Italia veniva rigorosamente confermato, mettendo rapidamente a tacere il putinismo di Berlusconi e di Salvini. E si è ulteriormente confermato nelle ultime settimane con le dichiarazioni di Giorgia Meloni di “fermo sostegno” ad Israele e alla sua politica di “punizione collettiva” della popolazione palestinese.

Così come la premier ha sbrigativamente dimenticato tutte le affermazioni anti-UE e contro il governo tecnocratico comunitario, conquistandosi un posto di tutto rispetto nelle istituzioni dell’Unione, nel G7, nel G20, nella NATO… Tanto che gran parte dei commentatori dei giornali mainstream hanno iniziato a elogiarne il “realismo”, la “moderazione”, il “rigoroso rispetto delle regole”…

Sembrava dunque che la ex attivista neofascista, già ammiratrice di Mussolini, seguace del caporedattore de “La difesa della razza”, Giorgio Almirante, reduce da campagne elettorali “sovraniste”, demagogiche e populiste, amica dei franchisti spagnoli di Vox, avesse tutte le carte in regola per assumere la guida di una “grande economia europea”.

Certo, il suo governo aveva un indirizzo marcatamente conservatore, era culturalmente caratterizzato dalla presenza di personaggi ingombranti e visibilmente incompetenti (vedi il ministro Lollobrigida) o smaccatamente provocatori (vedi il presidente del Senato La Russa), aveva assunto iniziative discutibili, come la cancellazione del “reddito di cittadinanza” che potevano provocare sgradite ripercussioni sociali.

Ma, tutto sommato, il nuovo governo, dopo un periodo di rodaggio, cominciava a piacere alla classe dominante.

La “svolta” della riforma costituzionale

Poi è arrivato il “premierato”, la proposta di una riforma costituzionale che punta a cambiare radicalmente il sistema politico italiano. Dunque, una sterzata che interrompe l’impostazione continuista, prudente e cauta mantenuta durante il primo anno di governo.

La riforma proposta mette fine alla centralità del parlamento, privandolo del potere di dare la “fiducia” (e di toglierla) al primo ministro. Questo in un paese che nel 1948 decise di dotarsi di un parlamento forte e con poteri di controllo sul potere esecutivo, proprio in ragione del bilancio di quanto era avvenuto nel 1922 e del successivo ventennio dittatoriale. Nella ipotesi meloniana il parlamento diventerebbe un organismo fantoccio, cassa di risonanza dei discorsi e dell’azione di un (o di una) “premier”, investita dal “voto popolare”.

Con l’elezione diretta del premier, per di più contestuale e sulla stessa scheda per l’elezione del parlamento, con una maggioranza sicura del 55%, con l’astrusa ma perversa norma detta “anti ribaltone” e con l’eliminazione dei senatori a vita, i poteri reali si concentrerebbero nelle mani del presidente del consiglio.

La pretestuosità degli argomenti di Giorgia Meloni, quella di voler porre fine alla cosiddetta “ingovernabilità italiana”, ai governi “deboli”, a quelli “tecnici”, è stata universalmente smascherata.

Basta guardare alla “forza” dell’attuale governo, che, pur con una maggioranza elettorale risicata, peraltro amplificata da un inedito astensionismo e dall’inesistenza di qualunque alternativa elettorale, gode di un’amplissima maggioranza parlamentare, insidiata solo dalle evidenti rivalità interne.

E’ dunque evidente la finalità autoritaria della proposta, la volontà di chiudere la stagione dell’antifascismo (a cui è anche simbolicamente legata la Costituzione del 1948), di affermare la volontà di aprire una “nuova stagione” (la “Terza Repubblica”), segnata dal ritorno alla figura dell’ “uomo” o della “donna della provvidenza”.

Per loro, si tratta di concretizzare, nel contesto del XXI secolo, il programma che fu del Movimento Sociale Italiano, la corrente neofascista da cui deriva il partito di Fratelli d’Italia.

Il meccanismo elettorale previsto, peraltro “costituzionalizzato” nella riscrittura dell’articolo 92 proprio per evitare che la Corte costituzionale possa impugnarlo, garantisce al premier eletto (magari anche solo con il 30% dei voti espressi, e dunque solo con il 20% della base elettorale) una maggioranza del 55%, “sicura ed immutabile” (per almeno 5 anni), e dunque una presidenza onnipotente, senza opposizioni né contrappesi capaci di modificarne le decisioni: un assegno in bianco per cinque anni, capace di consentire e forse persino di incoraggiare ogni tipo di tendenza autoritaria.

La proposta, non casualmente, si colloca in un periodo di gravissima crisi della democrazia.

Le tendenze plebiscitarie alimentate negli ultimi decenni da tutte le aree politiche istituzionali, la “privatocrazia”, che privatizzando gran parte dei servizi pubblici ha fatto pensare ad uno “stato minimo” e ha incentivato il distacco dalla politica di ampi settori popolari, i partiti “personali”, la sequela di leader improvvisati e vocianti, la cosiddetta “fine delle ideologie” e la sparizione dei progetti di trasformazione politica e sociale: tutto ciò crea il terreno più favorevole alle pulsioni autoritarie tanto care alla Meloni e alla sua corrente politica.

I rischi della riforma per la destra e per l’opposizione

Naturalmente la sua ambizione e la sua aspirazione a lasciare un segno reazionario nella storia istituzionale e costituzionale del paese spinge Giorgia Meloni a “giocare con il fuoco”. Lei ha detto che un’eventuale sconfitta del progetto di premierato nel probabile referendum confermativo non la indurrebbe a dimettersi, come invece fece nel dicembre 2016 Matteo Renzi in conseguenza della vittoria del No nel referendum sulla sua riforma scritta insieme a Maria Elena Boschi.

Meloni ha sostenuto di non voler “personalizzare” la partita, ma quella partita è intrinsecamente personalizzata. Giorgia Meloni lo sa, perché ha assisitto alle rapidissime crescite e poi alle cadute verticali di Berlusconi, di Salvini, di Renzi, e sa che un suo insuccesso referendario potrebbe innescare un suo fragoroso tracollo.

E quindi, alla faccia della “non personalizzazione”, ha iniziato a invadere i social con i suoi video nei quali sostiene la crucialità della svolta istituzionale, della “madre di tutte le riforme”. Ed è altresì evidente come quella riforma sia confezionata su misura per lei. E’ per questo (e non per “desiderio di mediazione” o per “rispetto per l’attuale presidente della Repubblica”) che la riforma punta al “premierato” e accantona il “presidenzialismo”, che fu per decenni il modello isituzionale di tutta la destra italiana e che resta scritto nero su bianco nel programma elettorale della destra del 2022: perché il presidenzialismo l’avrebbe tagliata fuori per i requisiti anagrafici previsti dall’articolo 84 della Costituzione.

Dunque, il referendum intrinsecamente sarà anche una verifica sulla sua persona, non perché lo sostengano Elly Schlein e Giuseppe Conte, ma perché il sì alla riforma sarà identificato con il consenso alla sua leadership.

E proprio per il carattere decisivo di quel referendum, per la consapevolezza del fatto che in quella partita la destra si giocherà il tutto per tutto, Meloni e i suoi stanno già studiando il modo per formulare un quesito “efficace”, capace di catturare il consenso di un elettorato in larga parte deluso da tutto, ma forse pronto a farsi affascinare dall’illusoria idea accattivante secondo cui “scegliere il premier” significherebbe “scegliere veramente”.

E anche le opposizioni sanno di “giocare con il fuoco”, perché anche loro hanno i loro “scheletri nell’armadio”.

Il PD ora difende l’assetto “parlamentare” delle istituzioni del paese, ma solo pochi anni fa, nel 2016, sotto la guida di Matteo Renzi (che non a caso ora con la “sua” Italia Viva sostiene il progetto meloniano), propose una riforma che nei fatti aboliva il senato e che puntava anche quella al “rafforzamento dell’esecutivo”.

E il Movimento 5 Stelle, nel suo demagogico delirio “antipolitico”, prometteva all’elettorato di “aprire il parlamento come una scatoletta di tonno”, perché considerato solo sede di inutili discussioni, e ha promosso e imposto a tutto il mondo politico una riforma costituzionale per ridurre drasticamente il numero dei parlamentari, considerati in blocco dei parassiti e dei corrotti.

Difendere una democrazia che però non funziona

E occorre essere obiettivi. Il parlamento e più in generale le istituzioni “democratiche” del paese, che nel referendum occorrerà difendere dall’aggressione della destra, non rivestono più quell’importanza e quella “sacralità” istituzionale che avevano fino a qualche decennio fa, perché la raffica di riforme elettorali, istituzionali e costituzionali proposte e realizzate da tutti gli schieramenti politici le hanno profondamente svuotate di ruolo e di senso, e per la crisi di una democrazia che il neoliberismo ha ridotto a pura gestione di una azione dettata da soggetti estranei alla politica (i mercati, la competitività, i vincoli di bilancio, ecc.).

Lo sta a comprovare la crescente disaffezione al voto per tutte quelle istituzioni soprattutto nei ceti popolari.

E la Costituzione del 1948 che occorrerà difendere sarà forse “la più bella del mondo” ma non ha fatto nulla, in questi tre quarti di secolo di vita, per impedire tutto il crescendo di nefandezze compiute da tutti i governi succedutisi a palazzo Chigi, che hanno portato l’Italia ad essere il paese con i peggiori salari dell’Ocse, con la peggiore precarietà del lavoro, con le maggiori diseguaglianze, con il peggior gap di genere, con la maggiore evasione fiscale, con la maggiore corruzione di tutta l’Europa occidentale, ecc.

Dunque, la mission dell’opposizione contro la deforme riforma Meloni-Casellati ha sulla sua strada tutti questi macigni.

Non per questo non va costruita la più ampia “alleanza democratica” per contrastare una proposta che punta a una svolta autoritaria.

Ma, nel fronte “antiautoritario” va salvaguardata gelosamente l’indipendenza di giudizio e di azione di chi non ha mai ceduto di fronte ai miti della “governabilità”, delle cosidette “efficacia” ed “efficienza”, degli “interessi nazionali” al di sopra delle differenze sociali, dei “patti sociali”, del “sistema paese”, della “tenuta dei conti”, al mito di una Costituzione scritta per promettere un “mondo migliore” ma la cui realizzazione è stata affidata a chi voleva pervicacemente mantenere e persino peggiorare questo mondo di ingiustizie e di diseguaglianze.