DI ANTONELLO COLAIACOMO
L’altro giorno, navigando sui vari siti relativi al mondo del lavoro, mi sono imbattuto su un comunicato sindacale a firma di 5 sigle nazionali del settore trasporti. L’argomento riguardava il contratto nazionale di categoria. Cosa c’era di strano, verrebbe da chiedersi, a leggere una tale notizia? Cercherò di spiegarlo, allora.
La scadenza triennale dei contratti
I contratti per tanti anni, hanno avuto scadenza triennale. I sindacati esistevano, non come oggi, e si facevano veramente sentire e vedere. Scrivevano tanto, su tutto. Lottavano tanto, su tutto. Molte volte non erano d’accordo con le aziende e le varie controparti. E si scioperava, molto spesso.
Così, quando erano passati 2 anni e mezzo dalla scadenza contrattuale, si iniziava già a parlare della futura piattaforma contrattuale del triennio successivo. E di quali normative bisognasse tentare di cambiare. E di quanti soldi ogni anno ci volessero, almeno per mantenere un buon potere d’acquisto, se non, addirittura, cercare di migliorarlo.
Badate bene, tali discussioni si facevano in tutti i posti di lavoro, in giro per l’Italia. Nei piccoli impianti e nelle grandi direzioni aziendali. Nelle categorie di “movimento” (autisti e macchinisti), come nei settori operai ed impiegatizi. Insomma, era prassi consolidata. Poco prima della fine dei 3 anni di vigenza contrattuale, venivano convocate le assemblee. Le sale erano gremite dappertutto. Si presentavano le piattaforme ai lavoratori, che le votavano, le emendavano, migliorandole. Alcune volte, pochissime per la verità, venivano addirittura bocciate, se apparivano troppo morbide nelle richieste.
E mentre le controparti datoriali studiavano a loro volta quanto e cosa defalcare dalle richieste sindacali, nei vari territori i lavoratori iniziavano a “cucire le pelli di tamburo”, pronti a battagliare, a rivendicare, a proclamare scioperi, quanto ce ne fosse stato bisogno.
Una lotta che pagava
Si passava quindi al periodo delle schermaglie. Bastava poco in categoria. Tipo “le aziende, le controparti, il governo, vogliono mettere sul piatto 70 invece che 100!” Ed era sciopero. Dichiarato. Fatto. Manifestazioni convocate, una a Roma sicuramente. E nel frattempo città bloccate, senza nessuna fascia di garanzia!
La lotta pagava, sempre. Anche quando apparentemente non pagava. Perché comunque aveva formato persone a lottare, a ragionare, a confrontarsi, a non essere d’accordo.
Il contratto, logicamente, veniva firmato abitualmente nei primi mesi del nuovo triennio. Qualcosa rispetto alla piattaforma, veniva sempre lasciato per strada; non si doveva stravincere, come regola sindacale non scritta. Anche i datori, così, potevano dire ai loro superiori (regioni, governo): “Avete visto, abbiamo pur sempre risparmiato denari”.
Fatto sta che i lavoratori portavano a casa gran parte delle richieste, approvate nelle centinaia di assemblee. E soprattutto, vedevano tutelare a scadenza fissa i loro salari, sostanzialmente adeguati al costo della vita. Ed erano salari dignitosi. Nessuno divenne miliardario, né milionario. Non ricordo di aver visto in categoria auto di lusso o persone fare fortuna grazie a tali rinnovi contrattuali.
L’epoca delle controriforme
Eppure, evidentemente, tutto ciò non andava bene. Qualcuno stabilì che quell’equilibrio che, è bene sottolinearlo, rendeva tutti felici, andava rotto. Il triangolo con, al vertice i datori di lavoro e alla base lavoratori e sindacati, bisognava cambiarlo, rivoltarlo.
Una prima forte (contro)riforma, avvenne nel 1990, con la legge 146, quella sul diritto di sciopero, che, man mano ci rendemmo conto nei decenni successivi, bisognava chiamare diritto a non scioperare. Di fatto, con la scusa di tutelare il diritto della mobilità dei cittadini, la modificarono sistematicamente in peggio nel corso degli anni successivi. Divenne sempre più difficoltoso scegliere le date degli scioperi, estendendo i periodi di franchigia e aumentando continuamente le fasce di garanzia.
Contestualmente, non da poco conto, e questo valeva però per tutti gli italiani, si riformava il mercato del lavoro e quello delle pensioni, con riforme talmente progressiste da far riportare l’orario di quasi tutte le categorie verso la saturazione alle 40 ore, mandare i lavoratori in quiescenza ad oltre 43 anni di contribuzione o 67 anni di età (peggiori in Europa), precarizzando e flessibilizzando al massimo milioni di contratti. Viva il riformismo: la bomba padronale illuminava l’aria, trionfi la giustizia capitalista.
Nello stesso periodo eminenti esperti del lavoro, poco e per nulla contrastati, iniziarono a legiferare unicamente contro le organizzazioni sindacali ritenute più conflittuali.
Le differenziazioni nel mondo sindacale
La perplessità riguarda comunque la conduzione dei movimenti sindacali in genere. Se da una parte, infatti, ci si aspettava che dalla parte datoriale e /o governativa si remasse in qualche modo “contro”, un diverso atteggiamento lo avremmo aspettato da chi stava “ufficialmente” dalla parte dei lavoratori.
Invece, proprio nei succitati anni, le maggiori organizzazioni di settore (triplice sindacale in testa, con CISAL e UGL spesso a supporto) hanno man mano abdicato all’unico e loro doveroso ruolo che avevano svolto, viceversa, nei decenni precedenti.
E, così, già dalla fine degli anni 90 le assemblee iniziarono a diradarsi, le piattaforme ad essere “queste sconosciute”, lo sciopero e le manifestazioni iniziarono ad essere viste di traverso.
Nel 1997, ci fu un primo colpo di coda, partito da Roma ed estesosi poi a macchia d’olio; alcune città, capitale in testa, furono bloccate da scioperi “spintanei”. Piovvero immediatamente minacce di sanzioni e licenziamenti verso i rivoltosi che avevano osato tanto (si verificò una sorta di unità d’azione tra un sindacato ex-autonomo, la CNL, ed i comitati di base (COBAS).
Da lì a poco, Contratto Nazionale firmato.
Qualche anno dopo, altro sussulto, seppur più piccolo. A cavallo tra il 2003 e il 2004, con Milano e Roma a suonare la carica, in testa alla protesta. E magicamente, ancora una volta, altro contratto firmato, quello che forse si può definire come l’ultimo che diede un po’ di respiro normativo ed economico ai lavoratori.
Il sindacato dei servizi
Poi, il nulla. Da 18 anni la categoria autoferro, per decenni una di quelle che vedeva riconosciuta la vertenza, ha avuto soltanto 160 euro di aumento. 18 anni!
Purtroppo, dobbiamo constatare che alle scelte ultra-moderate delle varie organizzazioni confederali (compresa la CGIL) ed autonome sopra citate che sono diventate sempre più organizzazioni di servizi sul modello CISL (CAF, ISEE, FINANZIARIE, AFFITTI, PENSIONI, ecc.) non è corrisposto, da chi non accettava questa trasformazione e, se vogliamo, vera e propria resa al sistema dominante, un doveroso e degno contraltare.
Le difficoltà di relazione al livello nazionale fra le varie realtà di base (CUB, COBAS, USB, SLAI ecc.) si sono amplificate a livello di categoria. Alcune volte ci sono state, è vero, ma solo temporaneamente lotte in comune in questo o quel territorio e in talune aziende, ma poi si è pensato ed agito malamente; e ognuno è tornato a coltivare i propri orticelli.
Così, oggi, i sindacati concertativi la fanno da padrone, essendo di fatto unici attori riconosciuti nelle contrattazioni nazionali, anzi verrebbe da dire nei non contratti nazionali.
Passano anni in categoria prima che si parli di contratto e quando giunge l’accordo, lustri successivi, è tutta una remissione.
Nel secondo livello di contrattazione, oltretutto, come successo varie volte, per esempio ad ATAC di Roma, una delle più grandi aziende europee nel settore dei trasporti, evidentemente presa ad esempio trainante dalle controparti, diritti acquisiti nei decenni precedenti con epiche lotte e molteplici giornate di sciopero e manifestazioni, vengono aboliti d’emblée con tanto di accordi sindacali della predetta quintuplice.
Una percezione mutata
È chiaro che il pensiero di molti lavoratori riguardo il ruolo del sindacato è oramai completamente mutato. Molti ne fanno a meno. Altri, rimangono iscritti per ragioni diverse dall’origine sindacale. Comune è il pensiero che con i sindacati ci guadagnano soltanto i “sindacalisti”, distaccati quasi sempre fino alla pensione. “Loro sono al servizio delle segreterie, a loro volta complici delle aziende”.
A questo punto, senza una vera azione conflittuale, con l’unità di tutte le realtà conflittuali e di base in categoria, l’unica strada che rimane ai lavoratori consapevoli è purtroppo quella legale: quando devi ricorrere all’avvocato vuol dire che il sindacato ha perso.
Insomma, il mondo del lavoro è sotto attacco e senza più una forza che lo tuteli. Il triangolo adesso è rovesciato: la base è sopra, con aziende e sindacati/sindacalisti e sotto il vertice i lavoratori, così da essere sempre e solo incudine.
Tempo fa, un esperto legale giuslavorista al quale fu sottoposto un accordo sindacale, che di fatto riportava indietro i diritti di alcuni decenni, si espresse in questo modo:
“… da alcuni anni mi capita sempre più spesso di dover difendere i lavoratori non tanto dalle malefatte dei loro datori di lavoro ma piuttosto da incredibili accordi sindacali”.
In conclusione, direi che, data la situazione, la categoria autoferrotramvieri è destinata a perdere ancora in termini normativi ed economici.
Sarebbe necessario che le realtà sindacali di base, pur diverse dai succitati sindacati complici, facessero tutte un definitivo passo indietro, la smettessero di gareggiare tra loro a chi è più di lotta e più oltranzista, e pensassero finalmente a riunire quel che è rimasto di conflittuale nell’intero mondo del lavoro. Ad majora.