di Fabrizio Burattini
La reazione di massa in Francia alla prospettiva di una vittoria dell’estrema destra nelle elezioni politiche e, di conseguenza, dell’insediamento di un suo governo, la tempestiva costruzione di una larga coalizione unitaria di sinistra, con candidature unitarie dappertutto e con l’adozione di programma politico radicale, la vittoria, seppure relativa, del Nuovo Fronte Popolare nel secondo turno: insomma, la recente vicenda francese mostra con estrema concretezza che l’ascesa dell’estrema destra è tutt’altro che “irresistibile” (uso qui l’aggettivo che nel 1941 scelse Bertold Brecht nell’intitolare il suo dramma “La resistibile ascesa di Arturo Ui”, come parabola sull’ascesa al potere del fuhrer tedesco), mostra che l’estrema destra può essere fermata, che le libertà democratiche e i diritti sociali possono essere difesi. L’importante è reagire, non cadere nel fatalismo, contrariamente a quel che hanno fatto qualche anno fa la sinistra e il movimento sindacale italiano, reagire e costruire l’unità più ampia possibile, senza settarismi.
La crescita dell’estrema destra si basa su tanti fattori, ma tutti “esogeni”: il disastro del “socialismo reale”, i fallimenti e i tradimenti della sinistra, le politiche antisociali dei governi liberali e la conseguente e crescente disperazione di gran parte delle classi popolari e lavoratrici. Sono tutti fattori che dipendono dalle sciagurate e scriteriate scelte di quella che è stata la sinistra del tardo XX secolo. La destra, e soprattutto l’estrema destra sono solo state capaci di sfruttare l’impatto negativo di tutte queste cose, seminando con determinazione e risolutezza il massimo di divisione tra le lavoratrici e tra i lavoratori, distruggendo con meticolosa ostinazione tutto ciò che costituiva il cemento della classe e l’intelaiatura della sua coscienza.
La vicenda francese, che, possiamo dirlo, costituisce una sorprendente eccezione, soprattutto se messa a paragone con quella italiana, mostra il ruolo determinante dei sindacati, nella capacità di tenuta o, al contrario, nella scelta del cedimento. Le lotte unitarie dell’Intersindacale francese nella primavera del 2023 contro l’innalzamento dell’età pensionabile (ma già in anni precedenti contro altre misure dei governi neoliberali) e nel corso del mese di giugno la sua azione altrettanto unitaria per esigere che non ci si arrendesse all’ipotesi di un governo lepenista hanno costituito il cemento che ha aggregato le forze politiche della sinistra, che ha spinto queste ultime ad accantonare le loro misere rivalità e ad unirsi in un fronte comune volto a difendere le conquiste sociali e i diritti democratici dei lavoratori francesi e di quelli immigrati, tutti minacciati dalla prospettiva di una vittoria dell’estrema destra.
Occorre dire che l’intersindacale francese non è stata solo caratterizzata dalla scelta di non arrendersi di fronte alla presunta ineluttabilità delle controriforme macroniane, ma ha anche scelto sempre unitariamente (dalla CFDT a Solidaires, passando per la CGT), fin dal febbraio 2022, di mettersi in sintonia con la spontanea solidarietà politica e popolare nei confronti della resistenza ucraina e di condannare senza mezzi termini l’aggressione russa, senza rifugiarsi in elucubrazioni ipocritamente “pacifiste” o esplicitamente campiste, con ciò prendendo decisamente la massima distanza da quel filoputinismo che accomuna la grande parte dell’estrema destra europea.
Non è un caso che numerosi militanti della “sinistra radicale” italiana flirtino al contrario con siti dedicati a tradurre e divulgare le argomentazioni della propaganda del Cremlino e siano comunque preda di una doppiezza speculare ma sostanzialmente analoga a quella occidentale nei confronti della Palestina, con la conseguenza di perdere credibilità politica e morale.
La riorganizzazione dell’estrema destra in Europa, con il leader ungherese Orbán, la destra francese di Le Pen, quella spagnola di VOX e quella della Lega di Salvini e Vannacci, oggi unita nel gruppo parlamentare europeo putiniano “Patrioti per l’Europa”, dimostra che la lotta contro l’estrema destra non può essere fatta paese per paese né rimuovendo il legame delle principali organizzazioni postfasciste con il regime russo, che le nutre con la propaganda, le sostiene economicamente e ne promuove le alleanze internazionali. La Russia torna ad essere, come fu nel XIX secolo, la potenza più reazionaria e aggressiva, prima che fosse sostituita nella prima metà del secolo successivo dalla Germania nazista.
Quella dell’atlantismo di Giorgia Meloni non va considerata un’eccezione (che comunque confermerebbe la regola), ma una scelta tattica che potrebbe risolversi se, malauguratamente, a novembre, nelle presidenziali americane dovesse prevalere Donald Trump. Il cerchio potrebbe chiudersi.
Dunque, tornando alla comparazione tra Francia e Italia, il relativo successo francese, basato su una pratica di resistenza unitaria e di mobilitazione, mostra quanto sia essenziale il ruolo dei sindacati nel rafforzare la fiducia e il morale della classe operaia organizzata, nell’agevolare la mobilitazione di milioni di persone, nel sollecitare anche i settori meno organizzati, e persino quelli colpiti dalla divisione sociale dalla frammentazione.
E parallelamente ne costituisce una potente conferma, ma purtroppo a negativo, la disastrosa esperienza italiana, segnata da un’unità sindacale fallace e subalterna, e da una rassegnazione colpevole, dalla sistematica scelta di evitare ogni battaglia per complicità o per la paura di perderla (dai referendum sul “piano Marchionne” all’acquiescenza di fronte alle riforme del governo Monti-Fornero, di fronte alla “buona scuola” e al Jobs Act di Renzi, solo per citare alcuni dei passaggi fondamentali).
Queste riflessioni non sappiamo se hanno qualche diritto di cittadinanza nelle teste dei gruppi dirigenti del sindacalismo italiano. Ahimé, però, non ci sembra affatto che il dibattito all’interno della Cgil e delle altre confederazioni prenda in esame anche solo minimamente queste considerazioni. E di riflessioni su questo piano non ce n’è bisogno solo all’interno del sindacalismo confederale, ma anche nella fila del sindacalismo di base e conflittuale che continua ad essere caratterizzato da una sostanziale autoreferenzialità e dalla malattia della concorrenza reciproca per cui “chi mi è più vicino è anche il mio principale avversario”, mentre “il nemico del mio nemico è mio amico”.
Abbiamo già preso le distanze da frettolose affermazioni che consigliavano alla sinistra italiana di “fare come in Francia”. Le condizioni in cui la sinistra italiana si è ridotta da molti anni a questa parte inseguendo percosi illusori che si sono puntualmente rivelati dei vicoli ciechi, non consentono minimamente di poter pensare di imitare il “modello francese”. Ma una cosa è certa. Uno dei nodi cruciali per poter pensare a medio termine di iniziare a modificare sensibilmente anche nel nostro paese i rapporti di forza politici e sociali risiede nel mondo sindacale.
Le lavoratrici e i lavoratori, i ceti popolari, i quartieri delle periferie, i settori razzializzati nelle città e nel mondo del lavoro vivono da anni una disperazione sociale crescente e una demoralizzazione disorientante. Sono almeno venti anni (un’intera generazione) che il paese non è attraversato da mobilitazioni complessive e durature. I salari, le pensioni e i redditi più modesti perdono ogni giorno il loro valore di fronte all’inflazione. I prezzi dei generi alimentari aumentano senza controllo e il costo degli alloggi è alle stelle. Le condizioni in cui si lavora sono arretrate di decenni mostrando un generalizzato sistema di supersfruttamento e di semischiavitù. L’istruzione, la sanità e i servizi sono sempre più degradati, con personale insufficiente e sottopagato. Mentre i ceti più ricchi si riempiono ostentatamente le tasche come mai prima d’ora, mentre l’ambiente si deteriora in maniera insopportabile. In generale, si diffonde il timore del caos, di una controllata instabilità, da cui potranno difendersi solo i più facoltosi.
Ma la cosa più disperante – e qui il discorso si ricollega ai sindacati – è che per opporsi, per ripararsi da tutto ciò sembra non essere disponibile alcuno strumento, come se piovessero pietre, se vogliamo citare il famoso film di Ken Loach del 1993 che a sua volta trae il suo titolo dal proverbio britannico “When you’re a worker, it rains stones seven days a week” (Quando sei un operaio, piovono pietre sette giorni alla settimana). E soprattutto come se non fosse stato inventato l’ombrello.
Infatti in Italia dell’”ombrello” costituito dai sindacati, della sua funzione e del suo uso si sono perse traccia e memoria per la stragrande maggioranza della popolazione lavoratrice. Tanto da far dilagare nel mondo del lavoro e così anche nei quartieri operai, nelle periferie, tra la “gente”, il senso di ineluttabilità di questa micidiale pioggia e delle sue conseguenze.
E’ questo nodo, quello del sindacato, quello degli strumenti primari di difesa dei ceti poveri e delle lavoratrici e dei lavoratori, che la sinistra dovrebbe mettere al centro della sua riflessione e della sua iniziativa, ma sembra proprio che questa “lezione francese” non venga minimamente colta.