di Fabrizio Burattini
La legge sulla cosiddetta “autonomia differenziata” approvata qualche giorno fa dal parlamento è ora all’esame della presidenza della Repubblica.
Vale qui la pena di ricostruire brevissimamente da dove viene questa misura che stravolge pesantemente l’assetto istituzionale e sociale già profondamente messo in crisi da decenni di politiche neoliberali.
Il progetto di autonomia differenziata nasce a seguito di una serie di pre-intese tra governo nazionale e regioni nell’inverno 2017-18, negli ultimi mesi di vita del governo Gentiloni. Tre Regioni (Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna), seppure con approcci diversi, iniziavano a definire un progetto di spostamento di una serie di competenze sul terreno sociale dello stato centrale nelle mani delle regioni. Non solo la sanità, già in buona parte spezzettata e affidata alle regioni fin dagli anni 90, ma anche di altri settori: trasporti, infrastrutture, ambiente, norme generali dell’istruzione, ricerca, sicurezza sul lavoro, ecc.
Nella Conferenza Stato-Regioni (organismo creato nell’ambito della modifica del titolo V della Costituzione) si è aperta una vera e propria trattativa nella quale i presidenti leghisti del Veneto e della Lombardia e quello del PD dell’Emilia Romagna ottennero la definizione delle materie che sarebbero dovute passare dalla competenza centrale a quella regionale. Il Veneto ne proponeva ben 26, 22 erano le materie proposte dalla Lombardia e 16 quelle dell’Emilia Romagna.
Oggi l’opposizione parlamentare in particolare del PD sembra presentare la legge appena approvata come frutto di un colpo di mano della maggioranza di estrema destra, ma non va dimenticato il ruolo protagonistico che ebbe il presidente “democratico” emiliano romagnolo Bonaccini, oggi anche presidente del PD nazionale, né va dimenticato il contesto concertativo di quella trattativa nella Conferenza Stato-Regioni. Oltre alle tre regioni più impegnate, quasi tutte le altre regioni (salvo l’Abruzzo e il Molise), anche quelle del Sud, anche quelle più in difficoltà economica e strutturale, presentarono la loro lista di competenze di cui appropriarsi.
In queste settimane assistiamo alla vicenda giudiziaria che ha sconvolto la presidenza della Liguria, ma bisogna ricordare che tutto il “ceto politico” regionale, in certa misura persino al di là delle diverse colorazioni politiche, è affetto da autoreferenzialità, particolarismo, ottusità localistica, tendenze affaristiche e corporative ed è strettamente legato con le lobby e i potentati presenti sui rispettivi territori. E’ un fenomeno che coinvolge tutti gli apparati degli enti locali ma che infetta in maniera particolare le amministrazioni regionali, proprio perché hanno crescenti competenze e perché gestiscono fondi finanziari ingentissimi.
Autonomia neoliberista
La scelta del governo, pur se segnata dalla volontà leghista di riaffermare in qualche modo il progetto “separatista” facendo un favore alle classi possidenti del Nord, si inserisce perfettamente nella logica neoliberale che pensa che lo “sviluppo” non debba accompagnarsi con misure di riequilibrio delle diseguaglianze ma anzi debba sforzarsi di accentuarle, premiando i ricchi a spese dei meno abbienti.
Infatti l’autonomia differenziata penalizza pesantemente le regioni del Sud del paese, rendendo ancor più impercorribile ogni misura di riequilibrio tra le regioni più ricche e quelle più svantaggiate, che da sempre, dalla unificazione sabauda del 1861, sono quelle del Sud.
Tanto che anche persino alcuni presidenti di destra delle regioni meridionali (in particolare il lucano Vito Bardi e il calabrese Roberto Occhiuto) hanno sommessamente espresso le loro riserve e le loro “preoccupazioni”. E tre deputati eletti nel feudo forzista calabrese sono persino arrivati a non votare la legge in parlamento. Anche perché i risultati delle recenti europee al Sud, pur se segnati da una devastante astensione, hanno comunque registrato una fortissima caduta di consensi per i partiti della coalizione di destra, caduta che ha le sue motivazioni anche nella diffusa consapevolezza di vivere in una parte del paese scelta come vittima sacrificale delle “riforme” meloniane.
Una legge contro il Sud e contro la classe lavoratrice
Ma sarebbe sbagliato pensare che la legge appena approvata e ora in attesa di essere vistata da Mattarella colpisca solo gli interessi del Sud Italia, con l’ulteriore crescita delle differenze tra Sud e Nord. Essa comporta una generale e drastica riduzione dei diritti sociali dell’intera classe lavoratrice e della stragrande maggioranza dei cittadini.
Il trasferire le competenze dallo stato alle regioni riduce pesantemente i fondi da destinare al sociale, elimina ogni quadro di riferimento normativo nazionale per lavoratrici e lavoratori, dando ancora più spazio alla già dilagante discrezionalità padronale nella gestione dei servizi un tempo “pubblici e universali”, ma anche nel trattamento normativo e salariale del personale impegnato in quei servizi. Verranno cancellate tutte le norme “nazionali” (contratti, accordi, leggi e disposizioni) che fino ad ora hanno governato il lavoro nei servizi e più in generale tutto il lavoro “pubblico” e privato. E questo non solo nel Sud, ma in tutte le regioni.
Nel Sud perché le regioni, messe ancor di più in difficoltà finanziaria, per poter erogare almeno gli stessi servizi erogati finora, cercheranno di risparmiare sul “costo del lavoro”, quello ritenuto più “comprimibile”, mentre attrezzature, macchinari, materie prime, energia, ecc. continueranno ad avere (chissà perché?) costi “nazionali”.
Ma neanche le lavoratrici e i lavoratori del Nord potranno gioire. Lo specchietto per le allodole secondo cui le regioni del Nord potranno pagarli di più funzionerà molto poco. Le regioni del Nord, destineranno i maggiori fondi a disposizione non certo a retribuire la manodopera ma per favorire i già dilaganti processi di privatizzazione e dunque i profitti delle loro clientele imprenditoriali.
Il mercato del lavoro italiano, già segnato dall’utilizzo semischiavistico padronale di una manodopera immigrata sottoposta al ricatto della clandestinità e del permesso di soggiorno, con le differenziazioni salariali che il nuovo quadro regionalistico consente, conoscerà una nuova concorrenza tra lavoratori provenienti da varie regioni, mentre complessivamente le lavoratrici e i lavoratori, in un quadro normativo ancor più parcellizzato dall’autonomia differenziata, vedranno calare drammaticamente la loro forza contrattuale e con questa i loro diritti e i loro salari.
L’esempio istruttivo della sanità
Come abbiamo detto, ora le materie di cui le regioni si approprieranno saranno numerosissime. Ma per capire che cosa succederà negli ambiti che fino a ieri sono stati gestiti nazionalmente (trasporti, infrastrutture, ambiente, scuola, ricerca, lavoro…) abbiamo di fronte quel che è accduto in questi anni nella sanità, che, come abbiamo ricordato, è stata regionalizzata già da decenni: immensi sprechi di denaro per favorire le clientele privatistiche, gestione elettoralistica dei fondi, smaccato favoritismo (con raffiche di inchieste che hanno persino portato a condanne definitive per presidenti di regione), mentre il diritto alla salute della stragrande maggioranza dei cittadini è annullato (parlano le disastrose condizioni delle liste di attesa, il “turismo sanitario” dilagante, la crescita di coloro che rinunciano a curarsi, il bilancio fallimentare della vicenda pandemica).
E la vergognosa burla degli “eroi” del servizio sanitario che si è continuato a trattare a pesci in faccia (dalla Lombardia alla Sicilia): riduzione dei diritti, turni massacranti, salari tra i più bassi d’Europa, sfruttamento insostenibile, uso incontrollato delle “cooperative”…
Dunque, l’autonomia differenziata rilancia, appesantisce e fa dilagare la mai risolta “questione meridionale”.
Un tassello decisivo delle nuove politiche
L’autonomia differenziata perciò non è solo (come si vuol far credere) un “pallino leghista”. Costituisce un ulteriore e pesante strumento di ricatto e di dominio sulle classi popolari: riducendo i diritti sociali, lavoratrici e lavoratori sono posti di fronte a un crescente ricatto sulle loro condizioni di vita e viene frantumata ulteriormente la loro capacità d’organizzazione.
La legge approvata non è in contraddizione con le pulsioni autoritarie e nazionaliste di Fratelli d’Italia espresse nella “riforma” costituzionale del “premierato”. Il capo “forte” rappresenterà una unità formale sopra un organismo sociale sempre più frammentato e devastato.
E’ in questo quadro che, anche oggi che la legge è stata approvata, continua ad essere necessario mobilitarsi per denunciarne i nefasti effetti in tutti gli ambiti, nei posti di lavoro, nelle scuole e nelle università, nei quartieri e nei luoghi di aggregazione, laddove lavora, studia, vive il popolo, al Sud come al Nord.
L’ipotesi di referendum abrogativo è importante, ma sarà vana se non continuerà e si approfondirà la campagna per rendere le persone consapevoli dei devastanti effetti di questa legge.