DI FABRIZIO BURATTINI
Grazie alla sentenza emessa il 19 febbraio dalla corte suprema britannica, proprio ieri, 16 marzo, la filiale inglese della multinazionale del car-booking ha comunicato che, a partire da oggi i suoi circa 70.000 autisti (finora considerati “liberi professionisti”) avranno lo status di lavoratori dipendenti, con i diritti sociali che ciò comporta: attribuzione del salario minimo (che il Gran Bretagna è 8,72 sterline, cioè 10,18 euro, all’ora), ferie pagate, partecipazione al fondo pensionistico (con i contributi previsti a carico dell’azienda), ecc.
Uber, che, lo sottolineiamo, è stata costretta a questa scelta da una sentenza della suprema corte, ora auspica che anche gli altri operatori del settore facciano altrettanto, per par condicio nella concorrenza. Anche il portavoce del governo di Boris Johnson, che pure, al pari di tutti gli altri governi in giro per il mondo, nel corso degli anni non aveva fatto nulla per tutelare le lavoratrici e i lavoratori delle piattaforme informatiche, ha salutato con favore la notizia.
Naturalmente questa sentenza comporterà un incremento dei costi per l’azienda, ma le risparmierà le forti spese legali che avrebbe dovuto sostenere se avesse atteso che tutti i dipendenti si fossero rivolti ai tribunali per esigere l’applicazione della sentenza della Corte suprema.
Al contrario, il 3 novembre scorso, anche se la notizia è stata naturalmente offuscata da quelle sullo scontro Trump-Biden, gli elettori della California hanno abrogato la norma che era stata adottata per imporre a Uber (proprio nella sua “patria”) una misura analoga. Grazie all’enorme campagna massmediatica orchestrata dal gigante dei taxi (e dai suoi emulatori), le cittadine e i cittadini di quello stato americano (che nello stesso giorno hanno votato a larga maggioranza per il “democratico” Biden), impauriti dall’eventualità di dover pagare di più i taxi, hanno decretato che gli autisti di Uber devono continuare ad essere considerati freelancer.
Uber, che è arrivata in Italia nel 2013, si rende comunque conto che dovrà trovare una mediazione per evitare che l’esempio inglese dilaghi in tutta Europa. Peraltro, dopo la creazione di Uber-Eats, la multinazionale è già coinvolta nella vertenza dei riders delle piattaforme della consegna del cibo a domicilio, che, come illustriamo in altre pagine del nostro sito, si sta sviluppando sul piano sindacale e legale proprio in queste settimane.
Nel frattempo, anche in Spagna la ministra del Lavoro e dell’economia sociale, Yolanda Díaz, ha annunciato proprio in questi giorni la presentazione di una “Legge Rider”, cioè di un nuovo regolamento sociale (che il governo dovrà adottare) che modifica l’attuale Statuto dei lavoratori e che prevede per le lavoratrici e per i lavoratori delle piattaforme informatiche nuove norme volte alla loro protezione sociale e giuridica. Nel patto si stabilisce l’obbligo da parte delle aziende, che utilizzano lavoratori attraverso piattaforme, di riferire sulle formule matematiche e sugli algoritmi che regolano il rapporto di lavoro.
Si stabilisce inoltre che i fattorini incaricati delle consegne sono da ritenersi dipendenti e devono avere le tutele previste per questa condizione. Le aziende, dopo l’approvazione della nuova legge, avranno 90 giorni per adeguarsi. Le aziende spagnole (riunite nell’associazione Adigital) ovviamente protestano, chiedendo “più intelligenza e più flessibilità”, ma la ministra non sembra sentire ragioni.
Com’è noto anche in Italia un’indagine sta mettendo alle strette le aziende del food-delivery e, soprattutto, cresce l’autorganizzazione dei rider che hanno indetto per venerdì 26 una giornata di grande mobilitazione.
La partita è importantissima. Perché riuscire ad imporre la trasformazione anche formale dei milioni di rapporti di lavoro che in tutto il mondo numerosissime aziende hanno finora confinato nella “libera professione” ma che nella sostanza sono già rapporti di lavoro dipendente costituirebbe un passo formidabile nella direzione della ricomposizione del lavoro e della classe lavoratrice.