DI GIORGIO SIMONI
Il trasporto pubblico locale è tornato al centro dell’attenzione, negli ultimi mesi, per effetto della pandemia da Covid-19. In particolare, molto se ne è discusso in relazione alla possibilità, o meno, di mantenere la didattica in presenza nelle scuole superiori, poiché da più parti si è sostenuto (con una certa forzatura) che il rischio di contagio per gli studenti sarebbe significativo solo durante gli spostamenti tra il domicilio e gli istituti, mentre la presenza in aula non arrecherebbe particolari problemi.
Comunque sia, è certo che la situazione pandemica ha evidenziato le carenze storiche di un servizio pubblico da lungo tempo trascurato e non adeguatamente finanziato. Similmente a quanto avvenuto per la sanità, sono emersi i risultati di decenni di politiche di taglio della spesa pubblica, e si è improvvisamente scoperto che gli studenti (e più in generale i pendolari) viaggiano su autobus e treni affollatissimi, con orari spesso non adeguati alle esigenze della popolazione e con impianti e veicoli vetusti. Altro elemento in comune con il sistema sanitario: anche il trasporto pubblico rientra nella competenza delle regioni.
Anche nel Recovery Plan, ancora TAV e niente per i pendolari
D’altra parte, il tema dei trasporti sembra suscitare sincero interesse nel mondo economico e governativo solo se connesso alla realizzazione di costose infrastrutture. Ne è una conferma il piano appena approvato per l’accesso ai soldi del Recovery found europeo, che prevede ben 32 miliardi di spesa per le grandi opere, dei quali 28 destinati all’Alta velocità ferroviaria (TAV). Per raffronto, al trasporto pubblico locale sono destinati solo 7,5 miliardi di euro per il rinnovo del parco mezzi. Fondi che, comunque, se confermati, potranno dare una mano a svecchiare l’età media di autobus e treni, ma non ad incrementare la quantità di servizi, trattandosi di spesa in conto capitale e non corrente.
Tornando alla questione degli studenti, da più parti si è invocato l’utilizzo a supporto del trasporto pubblico degli autobus turistici inutilizzati a causa del crollo degli spostamenti a medio e lungo raggio. Nulla è stato fatto per i primi due mesi dell’anno scolastico, semplicemente perché il governo non aveva stanziato alcuna somma a questo scopo. Solo con la prevista (anche se rinviata) riapertura delle scuole a gennaio la maggior parte delle Regioni sembra essersi effettivamente mossa in questo senso. Questa scelta deve però essere riguardata con una certa attenzione. Se è vero che in tempi di emergenza sanitaria possono essere giustificati provvedimenti eccezionali, va anche detto che si corre pure il rischio di legittimare in via definitiva il trasferimento ad aziende private di quote di servizi di competenza delle società pubbliche che gestiscono i trasporti locali. E siccome è ben noto che le condizioni salariali e normative (durata e struttura dei turni, ad esempio) vigenti nell’affollato settore del noleggio di autobus sono peggiori rispetto a quelle delle grandi aziende pubbliche, l’effetto concreto può essere quello di una spiacevole concorrenza al ribasso tra lavoratori dello stesso settore. Questo pericolo è già stato segnalato da esponenti del sindacalismo di base (USB a Napoli e A.l. Cobas a Milano, ad esempio) e può essere evitato solo rivendicando l’assoluta temporaneità di questi affidamenti ad aziende private e, al contempo, un forte piano di assunzioni e di acquisto di veicoli da parte delle società degli enti locali. Strategia che è possibile perseguire solo chiedendo al Governo e al Parlamento anche un forte aumento della dotazione finanziaria dell’ex Fondo nazionale trasporti.
Contratto, chi l’ha visto?
Infine, non si può dimenticare che i 113 mila lavoratori e lavoratrici autoferrotranvieri hanno il Contratto nazionale scaduto da oltre tre anni. Una condizione peraltro comune a milioni di altri subordinati nel nostro paese e che potrebbe portare, se ve ne fosse la volontà e la capacità, da parte delle organizzazioni sindacali, a una significativa convergenza di lotte. Nello specifico comparto, in ogni caso, le associazioni dei datori di lavoro (ANAV, Asstra e Agens), che ancora di recente in audizione parlamentare hanno rivendicato soldi pubblici a ristoro delle perdite derivanti dal calo di utenza, non sembrano intenzionate a sbloccare la trattativa, costringendo così Cgil, Cisl, Uil e un paio di sindacati autonomi a indire una prima di azione di sciopero per il prossimo 8 febbraio (meglio tardi che mai!, verrebbe da dire).
Salta comunque all’occhio come il comunicato che indice l’agitazione sia estremamente vago su quali siano le rivendicazioni concrete per le quali si chiama i lavoratori a scioperare (rinnovo del contratto, sì, ma per quali obiettivi?). Un punto, poi, della piattaforma proposta sembra quanto meno insidioso: si auspica una riforma del settore per “eliminare la dispersione dei fondi pubblici, avviando un processo di aggregazione delle aziende perché l’eccessiva frammentazione del sistema produce inefficienze e insostenibilità economica”. In sostanza, si invoca un processo simile a quanto ormai consolidato in Francia, dove tre colossi del settore (RATP, Keolis e Transdev) dominano il mercato nazionale e sono proiettati anche sui mercati internazionali. Una proposta che non si vede quali vantaggi porterebbe ai lavoratori del settore e agli utenti, e che sembra piuttosto muoversi nella stessa logica di concentrazione che domina tutti i settori economici nell’ambito della società capitalista. Sia che si tratti di creare pochi grandi competitori nazionali, sia che si vada a finire con la vendita delle società pubbliche alle già esistenti multinazionali francesi, inglesi o tedesche, è un qualcosa che nulla ha a che vedere con la difesa e lo sviluppo di un servizio locale, che pubblico e radicato nel territorio deve rimanere anche in termini di controllo e di proprietà.