TUTTA COLPA DEL SINDACATO

DI PIERLUIGI PENNATI

Tutta colpa del sindacato!

Quante volte abbiamo sentito o detto questa frase?

Al sindacato si attribuiscono doveri, poteri, meriti e colpe, in esso si ripone fiducia quando abbiamo un problema e da esso si fugge quando ci tutela, ma non sempre e non per tutti i sindacati, si distingue tra essi, ci sono quelli che per definizione difendono i lavoratori, quelli che crediamo si occupino solo di interessi corporativi, quelli inutili che sopravvivono nei vuoti organizzativi degli altri, quelli di parte che per lo più servono i padroni, e che se non fosse per le loro facciate artefatte allo scopo di aggirare i divieti potrebbero essere definiti di comodo, e molti altri ancora, in un panorama ormai vario e variegato nel quale è spesso difficile orientarsi e capire, ma ci rende ben chiaro come tutti indistintamente alimentano una crisi sindacale generazionale mai vista e sperimentata in precedenza.

Ma se vi è realmente una crisi sindacale o, per meglio dire, di valori sindacali, prima di essa il sindacato faceva probabilmente quello che ci si aspetta da esso e deve esserci un momento od un periodo nel quale si è generata, sembra banale pensare che sia ridotta dal progressivo allontanamento dei lavoratori dal sindacato o da alcuni emblematici non consoni comportamenti di alcuni singoli o gruppi di dirigenti sindacali, la crisi, evidentemente, riguarda più globalmente un’intera generazione di sindacati e sindacalisti che nel tempo si sono evoluti ed hanno da un lato necessariamente modificato il modo di approcciare il mondo del lavoro e la società per adattarsi ai nuovi tempi e dall’altro rincorrendo nuovi modelli strutturali che non fanno esattamente parte della cosiddetta missione sindacale.

L’analisi di questo mondo però deve iniziare necessariamente dalla semantica e quindi dal significato attribuito al sindacato nel tempo ed ai giorni nostri.

SINDACATO E SINDACALISMO

Nell’enciclopedia Treccani il sindacato è definito come una “associazione di lavoratori o di datori di lavoro costituita per la tutela di interessi professionali collettivi. Nel linguaggio economico e finanziario, coalizione di imprese”.

Ma se il sindacato, quindi, in termini generali può essere considerato “solo” un’associazione finalizzata alla difesa di interessi di una qualche categoria inerente al mondo del lavoro, prestatori d’opera o imprenditori che siano, il movimento che ne deriva squisitamente finalizzato alla sola organizzazione dei lavoratori prende il nome di sindacalismo ed assume la forma di una dottrina e prassi politico-economica teoricamente indipendente da qualsiasi matrice ideologica e culturale.

Nella pratica il sindacalismo è sorto come conseguenza della nascita di industrie che impiegando manodopera operaia, spesso in grande quantità, generavano concentrazioni di lavoratori che, quando erano sottoposti a condizioni di lavoro difficili, lentamente si organizzavano in movimenti solidali per potersi contrapporre all’arroganza dei padroni.

Lo strumento principale di lotta era l’astensione dal lavoro in massa, così da evitare singoli obiettivi di vendetta e creare un problema nel ricambio, ovvero nello sciopero generale che, a dispetto di quanto si possa immaginare, ha origini multi-millenarie, essendo il rifiuto di lavorare, anche se anticamente poteva persino costare la propria incolumità o la vita, l’unico strumento naturale a disposizione dell’uomo quando non resta di lui più null’altro.

Il sindacalismo diventato poi movimento transnazionale nasce però solo tra il 1850 e la fine del 19° secolo in Inghilterra e si basava principalmente sugli scritti di Sidney e Beatrice Webb che descrivendo un sindacalismo tradeunionistico postulavano una concezione dicotomica della struttura sociale ed economica, ma proprio per le spesso enormi differenze tra le caratteristiche sociali, geografiche e lavorative tra gli Stati, i movimenti operai ed il sindacalismo che ne nasceva si affermarono in modo differente in tutti i paesi sviluppati dove si propagavano relazionandosi in modo spesso fortemente diverso con quelli che erano i primi partiti politici operai.

L’approccio inglese divenne comunque il maggior punto di riferimento per tutte le successive esperienze dilagate forse prima in Francia e successivamente in Germania per le quali l’attività sindacale più che un’attività di lotta costante era essenzialmente un mezzo per indurre la classe operaia a generare ed accrescere una coscienza politica e di partecipazione sociale, elevandone così la condizione al bacino naturale superiore di formazione ed elaborazione del pensiero che fino ad allora riservata ai partiti ed agli intellettuali.

Questa modalità di operare, associata alla situazione socio politica culturale dei territori, produsse in Germania lo sviluppo di una concezione di tipo comunista che può essere considerata una variante delle condizioni dei rapporti tra i partiti ed il sindacalismo, tipici dell’applicazione teorica della socialdemocrazia tedesca, mentre in Francia si sviluppava prevalentemente un sindacalismo di tipo rivoluzionario, che fu poi quello maggiormente esportato negli altri paesi e che si affermò in particolare negli USA dove l’idea del sindacalismo prevedeva la rivoluzione tramite la lotta come l’unico elemento in grado di superare il sistema di produzione e l’organizzazione di tipo capitalistico del potere nelle forme dello Stato liberale.

Le altre forme di sindacalismo che si diffusero in particolare ad inizio 1900 vennero classificate come riformista (che separava gli interessi tra i lavoratori e la classe borghese) e corporativista sia cattolica che fascista (che originava dal principio della possibilità e della necessità di collaborazione tra le differenti classi sociali ed economiche, suddividendole per specifici interessi), ma successivamente alla diffusione del modello di capitalismo seguito alle politiche di Henry Ford ed a seguito dell’affermazione dopo il 1945 in Occidente dei principi politico-costituzionali dello Stato democratico, il rapporto tra imprenditoria e lavoratori divenne prevalentemente di tipo relazionale facendo ricadere il sindacalismo nell’ambito delle cosiddette relazioni industriali e/o sindacali tra il mondo dei prestatori di mano d’opera e l’imprenditoria.

Si osservi però che un primo sistema di relazioni industriali pressoché stabile si era già sviluppato in Europa a partire dagli anni ’20, a seguito di un intervento sempre maggiore degli stati in campo economico e sociale, comportando tra le altre cose il riconoscimento reciproco tra le parti sociali, lavoratori ed imprenditori, di rispettive rappresentanze, definendo una sorta di primo accenno delle procedure per la sottoscrizione dei contratti collettivi con la previsione di assunzione da parte dell’autorità pubblica di funzioni di arbitrato e di indirizzo delle dinamiche negoziali, strategiche imprenditoriali e di politica economica e occupazionale nei maggiori conflitti di lavoro e sviluppando di pari passo il concetto che il maggior potere d’acquisto dei salari produce un conseguente incremento della domanda, delineando un interesse comune tra lavoratori ed imprenditori allo sviluppo della produzione e configurando fin dall’inizio la possibilità, almeno latente, di uno scambio tra incrementi di produttività e aumenti retributivi.

Questo modello di relazioni industriali, che accompagnò anche l’integrazione del movimento operaio nei sistemi politici occidentali e all’introduzione del welfare state venne poi rimesso in discussione a partire dagli anni 1970 con l’emergere delle crisi fiscali degli Stati, dei limiti ecologici dello sviluppo e del grande rallentamento della crescita economica internazionale.

Questi elementi aprirono così una nuova fase nella quale il sindacalismo ridefiniva in modo sostanziale i propri spazi e ruoli, sia come movimento di lavoratori che come associazioni sindacali spostando la discussione su temi precedentemente sconosciuti come il decentramento produttivo, la mondializzazione dell’economia, l’internazionalizzazione, l’aumento della flessibilità nell’organizzazione del lavoro e sulle problematiche connesse all’avvento di una sempre maggiore automazione e supporto informatico che andava riducendo progressivamente la concentrazione operaia nelle grandi industrie, favorendo la diffusione del precariato e l’aumento dei carici di lavoro sul personale.

Questo primo ridimensionamento del potere contrattuale dei lavoratori unito alle proceduralizzazioni introdotte dalle mediazioni dello Stato portava a forti dissensi sia sulle modalità di operato dei sindacati, che sempre più avvinti nei vincoli di protocolli, procedure e relazioni politiche, non avevano più l’aspetto e l’efficacia delle organizzazioni che si erano distinte nei decenni precedenti con rari e difficili conflitti che generavano un effetto negativo sull’opinione pubblica e l’organizzazione dello Stato, sempre più formata da utilizzatori diffusi e sempre meno da classi sociali concentrate nella sola produzione di base, che proprio nella sempre maggiore presenza della funzione mediatrice dello Stato rendevano inefficace agli occhi delle masse la tradizionale lotta facendo progressivamente tendere almeno le strutture più grandi ed affermate a sviluppare un diverso modello di relazioni e contrattazione sindacale che diventava così un modo quasi naturale di concertazione.

Ma per poter contestualizzare tutto ciò nella nostra nazione e definirne localmente sia le peculiarità che gli stereotipi e le falsità che si sono spesso diffuse circa il vero ruolo sociale oggi operato dal sindacato e sulle sue possibili strumentalizzazioni è importante osservare come questo si è sviluppato ed evoluto in Italia.

IL SINDACATO IN ITALIA

La storia della nascita e dello sviluppo del sindacato in Italia è decisamente complessa e può essere sommariamente riassunta osservando come la dissoluzione delle vecchie corporazioni di arti e mestieri, nate a partire dagli anni 1880 a seguito della crisi sociale nelle campagne e lo sviluppo dell’industrializzazione, favorì l’avvento di una diversa forma di organizzazione dei lavoratori, associati in leghe di miglioramento e di resistenza, che si ispiravano ai principi dai quali avrebbero successivamente tratto origine le stesse strutture sindacali, ovvero l’esclusivismo di classe, in quanto le leghe tutelavano solo i lavoratori manuali ed erano costituite e dirette solo da essi, mediante principalmente la resistenza sul piano economico, poiché avevano il compito di difendere i lavoratori dalle azioni unilaterali dei padroni circa il salario, l’orario e le condizioni di lavoro ed il ricorso ordinario allo sciopero sia come strumento di difesa che come mezzo di pressione e di sostegno sociale per le proprie iniziative.

Nonostante la presenza al loro interno di varie posizioni politiche, le leghe erano sostanzialmente autonome dai partiti costituendo negli anni successivi le federazioni di mestiere, in particolare nei settori a più elevato contenuto professionale, quali quelli di tipografi, ferrovieri ed edili, e riunendo in esse tutti i lavoratori di una stessa categoria per rendere omogenee le condizione di lavoro stipulando convenzioni o contratti collettivi la cui validità era estesa a tutti i lavoratori con lo stesso mestiere e superando le primitive forme di accordo individuale e informale con il padrone.

La conseguenza di ciò fu negli anni del 1890 la creazione di nuove strutture sindacali denominate Camere del lavoro che inizialmente erano votate alla pura assistenza nell’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, ma che andarono via via trasformandosi in organismi di rappresentanza politica e sindacale di tutto il movimento dei lavoratori riferiti ad un determinato territorio.

Dal coordinamento tra le varie camere del lavoro finalizzato al superamento dei contrasti che spesso nascevano circa la direzione degli scioperi nacque per primo tra il 1902 ed il 1906 un organismo denominato Segretariato Centrale della Resistenza e successivamente la Confederazione Generale del Lavoro – CGdL diventando l’edificio unico del sindacato italiano.

IL SINDACATO FASCISTA

Dopo essere stata la protagonista della diffusione di un sistema generalizzato di contrattazione collettiva, la CGdL elaborò la prima forma di sindacalismo industriale come superamento di quello di mestiere e rappresentò sul piano generale il lavoro nelle relazioni con le associazioni padronali, ma negli anni 10 subì una duplice scissione: prima nel 1912 con la formazione dell’Unione Sindacale Italiana  USI – di ispirazione sindacalista rivoluzionaria e 1919 con la Confederazione Italiana del Lavoro – CIL – di ispirazione cattolica.

Con l’avvento del fascismo, quei settori che non si ritenevano adeguatamente rappresentati dal sindacalismo classista operaio e bracciantile diedero vita nel 1922 alla Confederazione dei sindacati fascisti che, sfruttando la distruzione con la violenza del leghismo e delle strutture sindacali confederali da parte dello squadrismo e attraverso la disponibilità della Confindustria e degli ambienti economici, riuscì ben presto ad imporsi come sindacato di Stato portando la CGdL a proclamare l’autoscioglimento nel 1927.

Da quel momento il sindacato italiano si ridusse al solo sindacato fascista che attraverso una legge dedicata che vietava anche la serrata e lo sciopero, divenne così unico, obbligatorio, con poteri pubblici, facoltà contrattuali, senza rappresentanza operaia, con dirigenti nominati dall’alto, senza diritto di sciopero e con pene severissime per i trasgressori che arrivavano alla reclusione dei responsabili.

È comunque evidente che durante un regime dittatoriale non possono essere tollerate distrazioni del potere e quindi il ruolo di mediatore dello stato assumeva il tono assolutistico anche attraverso i sindacati che diventavano così suoi organi diretti.

Lo stesso Mussolini, nel suo libro ad uso degli istituti scolastici “La dottrina del fascismo”, scrive (p.1 c.8 – Antisocialismo e corporativismo): “Né individui fuori dello Stato, né gruppi (partiti politici, associazioni, sindacati, classi). Perciò il Fascismo è contro il socialismo che irrigidisce il movimento storico nella lotta di classe e ignora l’unità statale che le classi fonde in una sola realtà economica e morale; e analogamente, è contro il sindacalismo classista. Ma nell’orbita dello Stato ordinatore, le reali esigenze da cui trasse origine il movimento socialista e sindacalista, il Fascismo le vuole riconosciute e le fa valere nel sistema corporativo degli interessi conciliati nell’unità dello Stato”.

Il sindacato ed il sindacalismo, quindi, non solo si pongono agli opposti antipodi del fascismo con cui non sono compatibili, ma nello stesso tempo è evidente come questi siano diventati un elemento sociale moderno ormai imprescindibile e necessario, al punto che con le successive leggi il primo veniva normato ammettendo solo elementi graditi al regime per effetto del quale il secondo veniva di fatto annullato.

IL DOPOGUERRA

Caduto il fascismo, il primo sindacato si costituì in modo unitario in confederazione nella quale confluirono tutti insieme cattolici, comunisti, socialisti, anarchici e indipendenti, dando vita tra il 1944 e il 1948 alla Confederazione Generale Italiana del Lavoro – CGIL.

La nuova confederazione si appoggiò inizialmente sul tessuto esistente delle ricostituite Camere del lavoro e nel 1948 fu subito sconvolta da un terremoto interno che portò ad una grande scissione terminata solo nel 1950 e che lasciò al suo interno solo le correnti comunista e socialista, mentre le correnti repubblicana e socialdemocratica formarono nel 1949 l’Unione Italiana del Lavoro – UIL – e la corrente cattolica la Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori – CISL nel 1950.

Nello stesso anno 1950 nacque in modo autonomo anche la Confederazione Italiana Sindacati Nazionali Lavoratori – CISNAL, legata al Movimento sociale italiano e di cui l’attuale erede è l’Unione Generale del Lavoro – UGL – fondata nel 1996, mentre la Confederazione Italiana Sindacati Autonomi Lavoratori – CISAL – nacque nel 1957 con lo scopo per diventare il punto di riferimento per tutta l’area del sindacalismo autonomo.

Con questo grande frazionamento il sindacalismo italiano, pur contribuendo significativamente a grandi movimenti sociali di massa ed al consolidamento delle istituzioni democratiche rimase sempre politicamente debole e diviso, trovando spesso contrapposizioni nelle relazioni industriali con le associazioni padronali che portavano spesso ad un isolamento della CGIL attraverso la pratica utilizzata da CISL e UIL di concludere negoziati ed accordi in modo separato.

Fu solo negli anni ‘60, con la ripresa di una forte conflittualità, che portò in particolare nelle grandi industrie metalmeccaniche ad un profondo rinnovamento in senso classista e unitario del sindacato accompagnando la fondamentale conquista nel 1970 della legge 300, denominata Statuto dei lavoratori, e all’affermazione dei consigli di fabbrica come organismi dotati di poteri di contrattazione e rappresentanza inseriti a pieno titolo nelle strutture sindacali.

GLI ANNI ‘70

Questo efficace e vincente moto unitario del decennio precedente portò nel 1973 CGIL CISL UIL a costituire formalmente la Federazione dei Lavoratori Metalmeccanici – FLM – che in modo assolutamente unitario gestì la maggiore espansione delle conquiste economiche dei lavoratori e della crescita sindacale, con i rinnovi contrattuali del 1973 e l’accordo del 1975 per l’unificazione del punto di contingenza, diventando anche un importante interlocutore nella definizione della politica economica del governo.

Proprio questo grande ruolo di interlocuzione unito all’avvio di profondi mutamenti nel sistema produttivo, alle conseguenze della crisi economica internazionale ed agli sviluppi della situazione politica interna, indussero negli anni successivi le confederazioni all’adozione di una linea più moderata in campo salariale e rivendicativo, con l’intenzione di diventare i protagonisti di una stabilizzazione del sistema politico e delle relazioni industriali attraverso un sindacato unico, forte, autorevole e rappresentativo.

Con fortune alterne i sindacati intervenivano nello scenario politico, finendo però per far naufragare definitivamente i propri disegni già sul finire degli anni 1970, quando riemersero nella federazione unitaria prospettive notevolmente divergenti che divennero impossibili da conciliare specie quando, nel 1984, in relazione alle crescenti pressioni per il ridimensionamento del meccanismo della scala mobile, la  CGIL assunse posizioni fortemente differenti da CISL e UIL sul taglio dei punti di contingenza deciso dal governo Craxi che portò alla rottura della Federazione unitaria.

Questo evento diede origine ad un periodo di grande incertezza sindacale che veniva alimentata dai ricorrenti dissensi non solo tra le differenti confederazioni, ma anche e soprattutto al loro interno che portarono ad una stanchezza ed un calo di consensi fra i lavoratori tale da permettere la diffusione e lo sviluppo di un modello di sindacalismo autonomo di base, COBAS, con un forte spirito rivendicativo e contrattuale che trovava maggior consenso soprattutto in alcuni settori del pubblico impiego, dei servizi e dei trasporti, ma anche nelle grandi fabbriche, mettendo in discussione sia il ruolo dei sindacati confederali fino ad allora monopolizzanti lo scenario del sindacalismo italiano che la loro rappresentanza e rappresentatività portando spesso a malintesi tra i lavoratori.

Forse la grande crisi dei valori iniziali del sindacalismo inizia proprio in questo periodo, infatti il fenomeno si consolidò più in particolare nei successivi anni ’90, quando si aprì parallelamente una crisi del modello di rappresentanza all’interno degli ambienti di lavoro che, favorita dal sempre più ampio dilagare del sindacalismo autonomo, suggerirono a CGIL CISL e UIL di produrre una riunione solo formale mediante l’unificazione della rappresentanza sindacale, tentando in quel modo di contrastare le ormai enormi emorragie di iscritti verso i sindacati autonomi.

L’idea vincente fu mutuata da alcune esperienze che si erano già rivelate vincenti in alcuni territori, come in Lombardia, dove a seguito di precedenti discussioni mai risolte proprio sull’argomento della rappresentanza e sulla spartizione degli spazi sindacali era stata avviata una sorta di sperimentazione che presso le federazioni milanesi aveva assunto il nome di RSAU, ovvero Rappresentanza Sindacale Aziendale Unitaria, tramite nomine congiunte sottoscritte dalle tre sigle, a fronte di elezioni tra il personale dipendente.

In questo modo si legittimavano le rappresentanze sul modello già collaudato in passato dei consigli di fabbrica, garantendo però alle sole confederazioni la presenza di propri funzionari essendo le stesse le organizzatrici uniche delle elezioni che non avevano altre prescrizioni scritte codificate oltre la necessaria appartenenza dei candidati alle confederazioni.

LE RSU

Questa modalità unitaria fu revisionata ed unificata dapprima con l’intesa-quadro interconfederale sulle RSU tra CGIL-CISL-UIL del 1º marzo 1991 e, successivamente, con l’accordo del 23 luglio del 1993 tra le organizzazioni sindacali e Confindustria (Protocollo Ciampi-Giugni) valevole in tutte le organizzazioni produttive private con più di 15 dipendenti, per essere poi estesa nelle imprese a partecipazione statale con l’accordo stipulato il 20 dicembre del 1993 tra parti sociali e Intersind ed infine nel settore pubblico, ma nelle sole amministrazioni che occupino più di 15 dipendenti, con il d.lgs 4 novembre 1997 n. 396 (comma 2, art. 6).

Oltre alla modalità unitaria le RSU portavano in sé un’altra grande novità senza precedenti, ovvero l’allargamento delle candidature a lavoratori non iscritti a CGIL CISL e UIL purché presentati da una organizzazione che si riconoscesse integralmente, sottoscrivendolo formalmente e senza riserve, nel “Testo Unico delle Rappresentanza” da essi stipulato, così che le nuove RSU si dovessero comunque adattare ai principi in esso contenuti e da loro stabiliti e che, almeno inizialmente, garantiva la presenza di un minimo di propri rappresentanti sindacali confederali determinati in base ai numero sulla base di una quota di riserva ineludibile di 1/3 del totale degli eletti che doveva necessariamente appartenere ad essi.

Questo era un dettaglio non secondario, dato che proprio in quegli anni il dilagare del fenomeno del sindacalismo di base in contrapposizione ai sindacati confederali aveva portato in molte realtà produttive all’isolamento praticamente totale dei rappresentanti di CGIL CISL e UIL in favore di quelli di base che, potendo contare su un seguito sempre più importante e che nelle proprie elezioni vedevano partecipazioni di massa, spadroneggiavano rispetto alle RSA nominate dai confederali ed imponevano i vecchi modelli di contrattazione basati solo sulla lotta, mettendo in ombra chiunque altro. Al contrario, con l’istituzione delle RSU, CGIL CISL e UIL non solo unificavano con il consenso delle controparti il sistema della rappresentanza sindacale, ma producevano un effetto di moderazione nei luoghi dove il sindacalismo di base dilagava, riportando la discussione entro i confini della concertazione, essendo le RSU riconosciute ed “invitate” ai tavoli di contrattazione dalle controparti senza necessità di lotta.

Seppure questo venisse da essi definito come un grande sforzo di allargamento democratico, perché permetteva ad altri sindacati di poter esprimere e veder riconosciuti senza conflitti propri candidati, fu proprio questo nuovo sistema a ridare ossigeno a CGIL CISL e UIL che in breve tempo ottennero il fattivo ridimensionamento del fenomeno autonomista, dato che non dovendo più lottare per conquistare una rappresentanza ai lavoratori restava solo la necessità di poter fruire di una struttura sindacale affermata ed organizzata che oltre ai delegati potesse fornire anche tutti quei servizi di assistenza e consulenza tecnica, fiscale e giudiziaria che ormai piano piano stavano già diventando indispensabili ad essi ed alle proprie famiglie.

Infatti proprio la necessità sempre più crescente di assistenza e consulenza dei lavoratori sui temi sempre più complessi della materia sindacale e fiscale rese necessario alle RSU, successivamente al loro insediamento, il poter di disporre di una struttura sindacale forte alle spalle che producesse loro assistenza e servizi per i lavoratori, ovvero la stessa carta vincente del sindacalismo fin dall’istituzione delle prime Camere Del Lavoro ancor prima della nascita di una confederazione di tipo moderno.

Ma se le RSU furono sufficienti a placare la più forte protesta sindacale tra i lavoratori, però non bastarono a colmare la grande distanza che si andava via via sempre più affermando tra le strutture sindacali e la base a causa delle differenti esigenze delle parti.

Ad un sindacato moderno, infatti, non è più sufficiente essere un organismo spontaneo, ma deve oggi sottostare a numerosi vincoli che vanno dalla registrazione associativa, per il riconoscimento legale, alla creazione di strutture locali, alla stipula di convenzioni con consulenti legali e del lavoro, all’assunzione di personale per la necessaria fornitura di servizi che ormai sono entrati a far parte della quotidianità sociale dei lavoratori, ovvero servizi di CAF e patronato per l’assistenza nel sempre più complicato mondo del lavoro dove anche la semplice lettura della busta paga per comprendere se vi siano in essa tranelli legali può essere un vero problema.

IL SINDACATO DEI SERVIZI

È così che, al giorno d’oggi, il sindacato, che nel sindacalismo originario si sviluppa solo come una “associazione di lavoratori costituita per la tutela di interessi professionali collettivi” ed intorno a questi si è sviluppato inizialmente, dopo la trasformazione in movimento sociale si è per lo più attestato in una sorta di organismo misto tra le due cose generando organizzazioni complesse che non soddisfano più solamente le esigenze di tutela e negoziato rivolte alle problematiche sul lavoro e sul posto di lavoro, ma si offre come soggetto polivalente nel quale i servizi, specie nelle situazioni più povere ormai in forte aumento negli ultimi anni, diventa un elemento quasi imprescindibile non solo per i lavoratori, ma anche per tutti quei cittadini che di questi servizi hanno necessità.

Oggi infatti al lavoratore non basta più trovare un impiego, esso deve anche saper comprendere le sempre più complesse leggi che lo regolamentano, le clausole contrattuali sempre più capziose che spesso gli impediscono di poter controllare la correttezza di buste paga e le sempre più complesse procedure sociali con la necessità conseguente di dover chiedere consulenza ed assistenza legale a soggetti che possano fornire le adeguate risposte ed almeno in prospettiva, come nel caso del sindacato, eventuale supporto per la mediazione ed i ricorsi in caso di conflitto.

Necessità organizzative legate alla prestazione d’opera, orario di lavoro e sue modalità, assistenza per l’interazione con la burocrazia statale, ormai spesso incomprensibile e con mezzi obbligati come le trasmissioni telematiche, le necessarie verifiche ISEE e tutte le altre informazioni e/o preparazioni necessarie per usufruire di un welfare state sempre più burocratizzato e complesso, supportato dallo stesso Stato che rimborsa economicamente le prestazioni di chi fornisce questi servizi, producono del sindacato l’idea non solo di essere sia un punto di riferimento per tutte le pratiche necessarie, ma anche di sostentamento potendo utilizzare il denaro per assumere impiegati ed aprire sedi.

Ovviamente, insieme alle altre problematiche di inattività almeno apparente del sindacato in generale, anche questa latente parziale connivenza con le istituzioni e/o le controparti, specie quando le risposte, pur corrette legalmente, non soddisfano aspettative legittime e ragionevoli, produce un accrescimento dello sconforto dei lavoratori che si rivolgono ad esso solo quando non ne possono fare a meno, tanto non fanno nulla senza un interesse.

Questo è forse un primo punto essenziale, l’interesse, nel tempo “il sindacato” si evoluto dapprima nella fornitura di convenzioni, sconti commerciali ed altro, poi di servizi non esattamente parte della propria missione principale e spesso a pagamento, fornendo al lavoratore che accresceva le proprie necessità burocratiche ed esistenziali l’idea che questo fosse sempre più una azienda avviata che invece di produrre beni di consumo produceva servizi, ma pur sempre un’impresa.

Proprio la contraddizione evidente tra l’essere sia un datore di lavoro che al tempo stesso controparte di altri datori di lavoro alimenta spesso il sillogismo che porta in alcuni casi a vedere nei sindacati la responsabilità di tutto quello che accade nel mondo del lavoro dovendo comunque garantirsi una sopravvivenza anche nella contrattazione.

Questa contraddizione può essere vista come un possibile grande ed ineludibile conflitto di interesse che può minare la necessaria coerenza sindacale.

IL CONFLITTO DI INTERESSE NEL SINDACATO

Ma se un conflitto di interesse esiste, questo non è tra le prerogative di base di un sindacato e non esiste solo in esso, il conflitto di interesse è forzatamente ovunque esistano qualsivoglia differenti e/o contrastanti interessi in gioco, infatti, per definizione, “si verifica un conflitto di interessi quando viene affidata una qualsiasi responsabilità decisionale ad un soggetto che abbia, o possa averne, interessi personali o professionali in conflitto con l’imparzialità richiesta da tale responsabilità e che quindi può venirne meno visti i propri interessi in causa”.

L’essere in conflitto di interesse, però, non genera automaticamente prova di abusi e scorrettezze, ma solo la possibilità che esse si verifichino, quindi deve sempre essere effettuata una precisa analisi della situazione e, se possibile, applicata una regola di massima trasparenza verificando se, in un dato negoziato, vi possano essere degli interessi terzi in gioco di almeno una delle parti e quali e quanti questi siano, cercando di comprendere se questi possano costituire un’agevolazione ed in quale misura nel caso in cui si cerchi di influenzare il risultato di una decisione.

L’essere in conflitto di interessi ed abusare effettivamente della propria posizione restano quindi due aspetti distinti: un soggetto coinvolto, infatti, potrebbe non agire mai in modo improprio, tuttavia un conflitto di interessi esiste a prescindere che ad esso segua una condotta impropria o meno e non va mai trascurato. Quindi, nel caso di un sindacato, si può verificare un conflitto di interesse quando un negoziato od una particolare azione posso compromettere rapporti sia sociali che economici tra i due soggetti negozianti, sia perché si può rompere un rapporto di fiducia, sia che venga meno un finanziamento per effetto del risultato.

Per fare un esempio spesso criticato, in un processo di licenziamento collettivo, ma anche singolo, il sindacato perde iscritti anche solo potenziali, quindi per compensare il lavoro negoziale prodotto ed il danno subito potrebbe richiedere al datore di lavoro una liquidazione in denaro, che può essere forfettaria o proporzionale al volume della perdita stimata, raggiungendo così un accordo che vede perdite di posti di lavoro dei suoi tutelati pur potendo fare qualcosa per evitarlo o anche solo contro la loro volontà.

Per questa ragione alcuni sindacati prevedono nel proprio statuto che non sia possibile per i propri aderenti sottoscrivere accordi di licenziamento che non vedano il soggetto coinvolto consenziente, per tutelare solo coloro che se ne vogliono andare volontariamente ottenendone un indennizzo.

Lo stesso principio vale anche per le questioni salariali, il datore di lavoro potrebbe accettare di generare una indennità salariale a favore dei propri dipendenti, in cambio di flessibilità nell’orario di lavoro o nella loro disponibilità, generando così un beneficio economico a discapito della loro libertà che evolvendo negativamente nel tempo potrebbe diventare un peso persino insostenibile, come accaduto in molte realtà della logistica e dei servizi, e, per il lavoro di mediazione atto a convincere i lavoratori della positività del risultato, potrebbe preliminarmente chiedere alla controparte per le vie brevi, benefici per se stesso di qualsiasi natura che se scoperti od anche solo sospettati producono un’immagine negativa del sindacato, di cui però non si può fare a meno per ragioni legali e contrattuali, trasmettendo l’idea che il sindacato possa essere l’origine di tutti i  benefici e di tutti i disagi del mondo del lavoro.

FORME DI AGGREGAZIONE SOCIALE

Ma come può essere una associazione allo stesso tempo difensore di lavoratori e datore di lavoro?

In Italia le forme legali di aggregazione sociale riconosciute dalla legge sono sostanzialmente tre e sono funzione della relazione che esiste tra le persone, l’oggetto sociale ed il denaro.

La prima forma di aggregazione sociale è l’associazione od il movimento, di questa categoria fa parte formale anche il sindacato, seppur normato separatamente in modo specifico dalla legge.

Le associazioni ed i movimenti sono “aggregazioni di persone” che perseguono “un determinato scopo”, che nel caso del sindacato abbiamo visto essere “la tutela di interessi professionali collettivi”, mentre “il denaro è un elemento opzionale”, infatti serve, o dovrebbe servire, solo se gli scopi da perseguire ne richiedano un utilizzo, essendo quindi “eventuale”.

La seconda forma legale di aggregazione è la società o la cooperativa, questa forma di aggregazione è riservata alle imprese di qualsiasi categoria e/o tipo.

Che siano private, collettive o cooperative, le società sono caratterizzate dalla legge perché “le persone” perseguono “uno scopo che è il denaro”, facendo sì che l’oggetto sociale sia solo “eventuale”, ovvero che il profitto si possa ottenere con uno oggetto sociale qualsiasi, talvolta fittizio.

La terza forma normata è la fondazione, per la quale “una somma di denaro” viene destinata ad uno “scopo prefissato” da chi la stanzia e le persone sono solo “eventuali”, ovvero in assenza di meccanismi automatici di gestione sono necessarie al perseguimento dello scopo, ma limitando la loro presenza a questo.

In realtà la legge classifica anche una quarta forma di aggregazione sociale talvolta molto diffusa, però vietandola a causa della sua pericolosità sociale, si tratta della associazione a delinquere.

Quindi, indipendentemente dalla forma dichiarata, si può sostenere che nei fatti quello che distingue in particolare le associazioni e le imprese è la relazione che le persone che le compongono hanno con il denaro, se è uno scopo è un’impresa, altrimenti no, indipendentemente dalla forma registrata o dalle dichiarazioni rese.

L’ASSOCIAZIONE IDEALE

L’associazione ideale si può pensare sia utopica, infatti essa persegue uno scopo, raggiunto il quale potrebbe anche sciogliersi, nei fatti, invece, qualsiasi associazione per la quale si renda necessaria la dotazione di una struttura con dipendenti avrà sempre la necessità di trovare una forma di finanziamento e sostentamento per sé stessa per garantirne la continuità salariale che non sempre può essere temporanea e nel caso di un sindacato diventa ancor più pressante dovendo per missione istituzionale tutelare anche i propri dipendenti, dando loro adeguate prospettive, continuità e stabilità.

Qualsiasi struttura che abbia dei dipendenti stabili, quindi, non può immaginare di essere temporanea e questa è forse la principale fonte di conflitto di interesse nelle strutture associative e quindi anche dei sindacati che diventando macchine imponenti con decine e persino migliaia e migliaia di impiegati non si possono permettere il lusso di una interruzione delle loro attività diventando nei fatti una vera e propria impresa il cui scopo, come visto, è quello di ottenere un beneficio economico attraverso il perseguimento di una finalità qualsiasi che nello specifico è quella della tutelare gli interessi professionali e collettivi dei lavoratori, almeno fino a quanto sia possibile senza eccessive compromissioni.

È questa necessità che genera forse la maggior parte della “concorrenza” tra i sindacati e vista dall’esterno di chi si vede offrire di tutto e di più assume l’aspetto di un mercato per accaparrarsi gli iscritti che in definitiva si riflette in una generale e generalizzata sfiducia generale nei sindacati, arrivando a classificarli come i principali attori del degrado e del fallimento del sindacalismo.

TUTTA COLPA DEL SINDACATO

Ecco, quindi, che al sindacato cui si attribuiscono doveri e poteri vanno anche i demeriti e le colpe di una fiducia mal riposta in quanto a dispetto delle nostre aspettative non ci ha tutelato con interventi incisivi, quindi di lotta, spiegandoci i limiti di una legge all’interno del quale esso stesso si autoconfina.

Eppure i sindacati non erano così, non tutti, infatti alcuni di essi ancora si celano dietro la bandiera che ha visto la loro gloria passata e che oggi è invece solo una lapide alla memoria del tempo che fu, ma che ancora funziona, infatti a quella o l’altra bandiera si attribuiscono meriti o funzioni storiche che nel cuore dei nostalgici ancora fanno breccia, come l’essere il sindacato dei lavoratori per definizione o quello che più influenza politica ha avuto.

Questo modo di fare non dà speranza, perché non è mai stato possibile nella storia ottenere qualcosa senza una lotta, seppur minima, senza una contrattazione e senza una vittoria sudata, affidarsi semplicemente a dei sindacati perché “difendono i lavoratori” è oggi una modalità con un senso limitato, il sindacato va non solo scelto, ma supportato e vissuto nelle iniziative e nelle azioni, in caso contrario diventerà un’azienda il cui scopo è dare alle persone un motivo per iscriversi, fosse anche solo ottenere uno sconto commerciale, senza poi fare più nulla.

IL SINDACATO LEGIFERA

La storia del sindacato ci insegna che non se ne può fare a meno, il sindacato è il baluardo contro la prepotenza, i soprusi, il fascismo, lo sfruttamento e la schiavitù, per questo la nostra Costituzione all’articolo 39 gli ha attribuito indipendenza “L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge”, democrazia “è condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica” e potere legislativo “i sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.

Proprio questa ultima parte, il potere legislativo, ovvero l’efficacia obbligatoria e quindi con valore di legge, è forse la parte più dimenticata, i diritti non sono nati dal nulla, la Costituzione è nata da una guerra, la legge 300/70 da immense lotte di lavoratori, senza di esse non ci sarebbe stato nulla, al contrario l’unità e la lotta hanno prodotto diritti piano piano smantellati con leggi stabili e concertazione in favore di un’economia che ha messo al centro il solo denaro dimenticando ed abbandonando quasi del tutto l’uomo che lo produce.

Si lavora per vivere e non si vive per il solo lavorare, il lavoro nobilita l’uomo perché dà ad esso la capacità di emanciparsi, se però è sfruttato eccessivamente al contrario è una schiavitù moderata che la toglie.

LAVORO FONDAMENTO E DIRITTO

Lavoro è il concetto più citato nella nostra costituzione che ripete la parola 19 volte, a partire dall’articolo 1 “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” che lo descrive come fondamento, l’articolo 4 “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” che lo cita come diritto, l’articolo 35 “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” che ne stabilisce la tutela, il 36 “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” che impone non possa essere povero e non dignitoso, il 37 “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore … la legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato” che impedisce le discriminazioni e lo sfruttamento di genere e minorile, il 38 “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale” che tutela chi non può lavorare, e poi il 39, il 46, il 51, il 52, il 99, il 117, e il 120, un apparato a tutela, prevenzione, protezione, sviluppo e garanzia immane.

Così importante e così spesso disatteso, a questo servono i sindacati, non a produrre servizi, non solo, non a vendere prodotti o tessere, ma a difendere i diritti e, quando essi non sono presenti, introdurli.

Solo con la partecipazione attiva ad un sindacato che discute e si relaziona con la base si può continuare a tutelare il diritto, rimettendo al centro il lavoro per l’uomo e non discutendo solo dell’uomo per il lavoro, il ritorno alla sovranità del lavoro vede necessariamente la necessità di una partecipazione sindacale forte.

Se alcuni sindacati sono morti e sono oggi solo l’ombra di se stessi, il sindacalismo non è mai morto ed è rimasto quello che era in principio, ovvero è sempre conseguenza della presenza di imprenditori che impiegando manodopera generano condizioni di lavoro difficili, rendendo necessaria l’organizzazione in nuovi movimenti solidali in grado di contrapporsi all’arroganza dei padroni.

Il sindacato siamo noi, uniti nella lotta.