DI DOMENICO CONTE & AGOSTINO GIORDANO
Già nelle prime settimane dell’emergenza sanitaria è stato subito chiaro come la pandemia globale avrebbe acuito una crisi sociale e di sistema già in essere da decenni e i cui costi sono stati quasi del tutto scaricati sui ceti popolari.
La miseria del presente si era già manifestata in tutta la sua crudezza, ampliando a dismisura le disuguaglianze sociali e arrivando a minare anche le basi dell’ecosistema, messo in ginocchio in nome della mercificazione e dello sfruttamento selvaggio.
Con le ricette economiche propagandate a gran voce dal pensiero unico neoliberale, in questi anni hanno provato a convincerci che la globalizzazione capitalistica – ridimensionando il ruolo dello stato – avrebbe favorito l’accesso ad un benessere diffuso. Ma la realtà è un’altra: attacco al potere d’acquisto di salari e retribuzioni, precarizzazione, devastazione del mercato del lavoro, del welfare, della sanità pubblica e dell’istruzione.
L’austerity degli ultimi anni ha praticato poi un’ulteriore accelerazione nella direzione della deregulation e della riduzione delle protezioni sociali, con particolare attenzione al mondo del lavoro e ai suoi diritti, messi ogni giorno di più in discussione.
In Italia in particolare da decenni facciamo i conti, oltre che con un quadro normativo che ha sgretolato l’impianto dei diritti del lavoro, con la crisi di efficacia della contrattazione collettiva, di cui vorremmo analizzarne le cause, citando, per dovere di sintesi, solo alcuni aspetti che riteniamo tuttavia centrali: la scomposizione del ciclo produttivo (che rende sempre più difficile la ricostruzione della catena del valore), l’approdo ormai definitivo delle grandi organizzazioni “maggiormente rappresentative” al sindacato di mercato (con la conseguente accettazione del punto di vista dell’impresa come l’unico possibile), la difficoltà dell’area del sindacalismo conflittuale di proporsi come alternativa efficace sul terreno della rappresentanza e della costruzione di una mobilitazione di massa, in grado di invertire la tendenza. Da non sottovalutare, naturalmente, anche le responsabilità della “sinistra politica”, divisa tra chi da tempo ha derubricato le ragioni del lavoro e chi non riesce a rappresentarne le istanze a causa dell’assenza di consenso e radicamento sul territorio (senza precedenti).
Ed è così che l’assenza di un punto di vista autonomo del lavoro nella società rende le lavoratrici e i lavoratori e le loro istanze completamente invisibili. I bassi salari e la precarietà sembrano essere temi secondari rispetto alla narrazione propagandistica dell’invasione dei migranti che, ad esempio, entra quotidianamente e in maniera prepotente nelle nostre case, alimentando razzismi e distogliendo l’attenzione dai reali problemi di chi lavora.
Tendenza che si conferma con maggiore forza in questa fase di pandemia, con le lavoratrici e i lavoratori che i più vorrebbero spettatori di fronte alla crisi sociale in atto e dove sembrano essere altre le categorie sociali in sofferenza a causa dei provvedimenti restrittivi attuati dal governo col ricorso ai DPCM.
Ma il mondo del lavoro, dall’inizio della pandemia ad oggi, ha pagato un prezzo altissimo. Sono passati quasi sotto silenzio le pressioni di Confindustria in Lombardia che hanno ottenuto, con le numerose deroghe concesse dai prefetti, che si tenessero aperte durante il lockdown aziende di produzioni non essenziali e che hanno rappresentato un veicolo importante di contagio. O il settore della logistica, interessato da numerosi focolai dovuti alla presenza di appalti e subappalti selvaggi, senza regole e senza il rispetto delle norme di sicurezza, spesso anche in assenza di fornitura dei necessari DPI. Oppure il personale sanitario che ha pagato a caro prezzo le conseguenze di una sanità pubblica ridotta sul lastrico a causa di decenni di tagli lineari, contenimento dei costi e del personale, a vantaggio dei profitti sempre crescenti della sanità privata.
Negli ultimi giorni si è poi costruita una vera e propria campagna mediatica finalizzata a considerare le lavoratrici e i lavoratori del pubblico impiego come dei privilegiati da mettere alla gogna e da colpire.
Ma la realtà del lavoro è un’altra. Il bilancio tra il secondo trimestre del 2019 e il secondo trimestre del 2020 vede circa 840 mila occupati in meno, di cui il 56% sono donne (dati aggiornati a luglio 2020), come rivela l’Osservatorio Inps. Il calo riguarda soprattutto il lavoro a termine, il lavoro autonomo e il part-time. Questi dati non tengono conto naturalmente dei posti di lavoro persi nei settori dove si pratica in maniera massiccia il lavoro nero e che lascia pensare che le cifre potrebbero essere anche più che doppie, nonostante il blocco dei licenziamenti che ha calmierato la situazione. Di conseguenza, l’impatto della pandemia ha interessato soprattutto i contratti a termine o il finto lavoro autonomo (lavoro dipendente mascherato). Solo tra gennaio e aprile 835 milioni di ore di cassa integrazione contro 91 milioni dello stesso periodo dell’anno precedente.
Nei mesi scorsi, infatti, non è stato casuale se mobilitazioni, conflitti e vertenze hanno attraversato il mondo del lavoro, quasi nel silenzio assordante di stampa e tv. In modo particolare le lavoratrici e i lavoratori coinvolti sono stati coloro che appartengono a categorie esposte, estranee all’ambito di tradizionali e consolidate tutele, dove precarietà e inadeguatezze contrattuali sono, da decenni ormai, sistematicamente all’ordine del giorno e la pandemia ha, per forza di cose, drammaticamente ingigantito.
Il settore del bracciantato agricolo, in particolar modo quello delle campagne meridionali, ha visto mobilitarsi migliaia di lavoratori che hanno portato alla ribalta mediatica tanti “invisibili” e tutt’ora stanno continuando a battersi contro il precariato e contro gli inefficaci provvedimenti di regolarizzazione attuati dal governo, che fino ad ora hanno solo regolarizzato lo sfruttamento.
Si sono mobilitati anche medici, infermieri e lavoratori del settore sanitario pubblico (in particolar modo gli addetti alle pulizie), soprattutto sull’onda di ciò che è emerso nelle fasi critiche del lockdown della scorsa primavera: celebrati come eroi, appena l’emergenza sembrava alle spalle, sono stati immediatamente “scaricati” e quindi si sono mobilitati, ignorati in gran parte dai media ufficiali, per chiedere stabilizzazioni e rinnovi di contratti.
Anche gli operatori dei servizi socio-educativi e socio-sanitari sono più volte scesi in piazza nei mesi scorsi e, lo scorso 13 novembre, sono stati protagonisti di un riuscitissimo sciopero generale nazionale promosso da diverse sigle sindacali di base. Hanno scioperato e in molte situazioni le mobilitazioni continuano, rilanciando piattaforme rivendicative molto avanzate e puntando il dito contro le eccessive esternalizzazioni, gli appalti al massimo ribasso, l’applicazione di contratti che nel privato sociale continuano a peggiorare la qualità dei servizi, a discapito della continuità della presa in carico, della cura e delle condizioni di lavoro di centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori. Nei servizi socio-sanitari e socio-educativi, infatti, sono davvero tanti i punti critici che caratterizzano la condizione lavorativa di educatori e operatori: contratti ciclici, riduzione di orario, discontinuità di salario, impossibilità di accedere a forme di integrazione del reddito, ammortizzatori sociali che non coprono più del 50% della retribuzione, ore di equipe e programmazione non riconosciute, etc. Per non parlare dei protocolli di sicurezza che non vengono minimamente garantiti in svariati contesti e strutture, nemmeno dopo le drammatiche esperienze vissute nella fase più acuta della pandemia, nei mesi scorsi. Il contrasto della mercificazione del welfare e dei servizi sociali, l’essere riconosciuti come attori importanti nella costruzione di progetti di autonomia ed emancipazione personale e sociale (a partire dai soggetti più fragili), è diventata per le operatrici e gli operatori dei servizi socio-sanitari e socio-educativi un’esigenza ancora più impellente, come è stato drammaticamente emerso nelle fasi più critiche della diffusione del Covid. Così come risulta sempre più necessario arrivare a una reale ricomposizione (nonché unificazione) delle figure professionali socio-sanitarie e socio educative, che possa portare finalmente al superamento della frammentazione contrattuale e all’ottenimento di un contratto nazionale di categoria delle cooperative sociali, che sia equiparato al pubblico impiego.
Si sono mobilitati anche le lavoratrici e i lavoratori del mondo della cultura e dello spettacolo. A tal proposito, emblematica è stata la cosiddetta protesta dei “bauli in piazza” inscenata a Milano lo scorso 10 ottobre: al grido di “un unico settore, un unico futuro” attrezzisti, tecnici e artisti vari hanno riempito Piazza del Duomo con centinaia di bauli (quelli che servono per contenere e trasportare le attrezzature di scena) e si sono mostrati uniti e compatti nel chiedere con forza al governo nuove regole che possano favorire la ripartenza degli eventi e degli spettacoli in modalità sicure e sostegni economici per un comparto duramente colpito dal lockdown e dalle diverse misure restrittive della socialità.
I lavoratori della logistica, invece, non si sono mai fermati e hanno continuato a mobilitarsi anche durante la pandemia con picchetti e manifestazioni partecipate, rivendicando ancora contratti e salari degni e – a maggior ragione – condizioni di lavoro sicure.
Stesso discorso vale per i cosiddetti “Riders”, i fattorini delle consegne a domicilio il cui lavoro è esponenzialmente aumentato proprio durante le fasi più stringenti e vincolanti del lockdown. Per loro sono notevoli le situazioni di disagio lavorativo, di sfruttamento e ricatto salariale. Non a caso, proprio agli inizi di ottobre, “AssoDelivery”, l’associazione che rappresenta la maggior parte dei gruppi del settore della distribuzione a domicilio (fra cui Glovo, Just Eat, Uber Eats, Deliveroo, Social Food) – ha firmato una vergognosa intesa con l’Ugl, che, come denunciato da “Riders Union”, rappresenta un “accordo pirata con un sindacato di comodo” che ha mantenuto sostanzialmente invariate le condizioni del settore (confermando bassi salari, precarietà e non riconoscendo ad esempio, ferie, malattia e maternità). I Riders in lotta, però, hanno smascherato prontamente questa vigliaccata e hanno rilanciato le loro mobilitazioni.
Queste esperienze non possono essere abbandonate al loro destino, ma devono rappresentare un megafono per uscire dalla letargia delle lotte sociali su larga scala e per poter costruire una mobilitazione generale quanto mai necessaria. Un forte e rinnovato protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori è la condizione necessaria per la costruzione di un nuovo paradigma sociale, che non si limiti a mettere delle toppe ad un sistema iniquo e diseguale ma che, attraverso il rilancio del conflitto sociale, ponga le basi per una nuova stagione di conquiste.