CONTRATTI PIRATA ANCHE IN CASA CGIL?

DI FABRIZIO BURATTINI

Siamo più volte intervenuti sulla sciagurata pratica dei “contratti pirata” stipulati al ribasso da organizzazioni sindacali di comodo utilizzate in modo appunto piratesco dalle associazioni padronali, al fine di consentire un dumping contrattuale in materia sia normativa che salariale.

Questi contratti colpiscono le tutele e le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori e inficiano anche la capacità di azione delle organizzazioni sindacali, comprese quelle confederali, spesso disponibili a sottoscrivere contratti “al ribasso” ma evidentemente impossibilitate a rincorrere i contratti sottoscritti da UGL, Cisal, Confsal e da una miriade di sigle di comodo che a volte esistono solo perché sono disposte a sottoscrivere i CCNL scritti sotto la dettatura dei loro padroni.

Già nel 2013, l’ARI (Associazione restauratori italiani) aveva sottoscritto con l’UGL un contratto collettivo nazionale per i dipendenti delle imprese di restauro di beni culturali (poi puntualmente rinnovato nel 2016 e nel 2020), che fondatamente Cgil, Cisl e Uil descrissero come un “CCNL pirata”. Non a caso, sul suo sito, l’ARI definì quel contratto “una tappa di fondamentale importanza per il settore, perché con la sua applicazione si riconosce la peculiarità dell’impresa di restauro, distinguendola senza più alcuna possibilità di equivoco dall’imprenditoria edile”, ovviamente nascondendo che con quel contratto le lavoratrici e i lavoratori venivano penalizzati sul piano tabellare, sulle maggiorazioni per il lavoro straordinario diurno, notturno e festivo, perdevano la tredicesima, l’indennità di trasferta, la possibilità della contrattazione integrativa…

Le conseguenze salariali della pratica dei “contratti pirata” (per non parlare di quelle in campo normativo e di tutela della sicurezza) sono state denunciate, ma nulla è stato fatto per porre anche solo un argine ad un fenomeno sempre più diffuso.

Poi nel 2001, la Fim-Cisl e la Uilm-Uil decisero di stipulare con la Federmeccanica della Confindustria un contratto separato che teneva fuori la Fiom-Cgil, con quale avevano mantenuto per 40 anni un’azione unitaria.

Nel giugno del 2010, questa pratica fece un ulteriore passo avanti, con la sottoscrizione, sempre da parte della Fim e della Uilm, dell’accordo con Sergio Marchionne, che non solo era stipulato senza la firma della Fiom, ma che stabiliva di colpire quest’ultima organizzazione estromettendola formalmente e sostanzialmente dalla contrattazione e dalla rappresentanza. Anche questi, in fin dei conti, erano “contratti pirata”.

Fin qui però si è sempre trattato di contratti di dumping sottoscritti da organizzazioni sindacali (reali o fittizie che fossero) ai danni delle lavoratrici e dei lavoratori e di altre organizzazioni sindacali.

Negli ultimi tempi si sta affacciando un fenomeno nuovo, che sta mettendo in contrapposizione organizzazioni sindacali che hanno in tasca la stessa tessera. E questo coinvolge la stessa Cgil. Anzi, proprio la categoria fino a pochi anni fa (e da qualcuno perfino tuttora) ritenuta la più “radicale” della confederazione: la Fiom

A metà dicembre la Fiom, assieme a Fim e Uilm, ha sottoscritto un accordo, ratificato proprio due giorni fa (il 20 gennaio) all’unanimità dall’assemblea dei delegati riunita a Bologna. Quell’accordo coinvolge tradizionalmente alcune centinaia di migliaia di lavoratori che operano in numerosissime microimprese “dei settori della metalmeccanica, della installazione di impianti, del settore orafo e argentiero, del settore odontotecnico”. Ma il nuovo accordo include anche i dipendenti “delle imprese che operano nel settore del restauro di beni culturali (codice Ateco prevalente 90.03.02), dando copertura ad un settore sino ad oggi privo di Contratto nazionale” (come recita l’accordo).

Il punto però è che quel settore non è affatto “privo di CCNL” ma è da lungo tempo coperto da un altro contratto nazionale, quello del settore edile, che inquadra i restauratori e le restauratrici al IV livello, ed è organizzato da altre federazioni di categoria della stessa Cgil, la Fillea (oltre che dalla Filca-Cisl e della Feneal-Uil).

Il CCNL appena sottoscritto da Fiom-Fim-Uilm assomiglia molto a quello stipulato da ARI e Ugl, ad esempio consentendo la frammentazione della figura della/del restauratrice/tore in ben 8 livelli, mentre nel contratto dell’edilizia è compattata solo nel IV livello che comprende questa declaratoria: “Lavoratore che esegue interventi specialistici guidati su manufatti e opere vincolate, possiede conoscenze dei principi di restauro, conservazione, dei materiali costitutivi delle opere d’arte dei materiali, esegue autonomamente sulla base delle specifiche indicazioni metodologiche fornite, interventi di restauro e conservazione su affreschi dipinti, materiali lapidei e superfici decorate di beni architettonici ed è in possesso dei requisiti minimi ai sensi di legge”.

Non a caso il Comitato direttivo nazionale della Fillea, la federazione di categoria delle lavoratrici e dei lavoratori edili affiliati alla Cgil, ha prodotto il 22 dicembre un articolato ordine del giorno nel quale si ricorda come già in passato il contratto al ribasso per le imprese artigiane metalmeccaniche avesse sottratto al CCNL dell’edilizia i montatori di ponteggi e naturalmente si stigmatizza l’inclusione nel contratto sottoscritto persino dalla Fiom anche delle attività di conservazione e di restauro, definendola esplicitamente “un’azione di dumping contrattuale in termini salariali e normativi”.

Infatti questa possibilità offerta al padronato dell’edilizia consente alle imprese di eludere i versamenti a Comitati paritetici territoriali che compiono visite ai cantieri per verificarne le misure di prevenzione e i piani di sicurezza. E arriva perfino a coprire l’ipocrisia delle associazioni datoriali artigiane che durante il lockdown del 2020 si batterono per far rientrare il codice Ateco 90.03.02 (delle attività di restauro) nelle attività edili esentate dalla chiusura.

Non c’è bisogno di ricordare che le/i restauratrici/tori operano nei cantieri, su impalcature a volte molto alte, con materiali, colle e resine edili, e dunque con rischi del tutto analoghi a quelli degli operai edili.

Per non parlare del dumping sul costo del lavoro,che consente di abbassare il costo mensile di una/un restauratrice/tore dai € 3.538,15 (previsti dal contratto edilizia) fino a € 2.448,30 (previsti per il III livello del CCNL artigiani metalmeccanici). Per una comparazione più esauriente si possono consultare le tabelle che l’Odg della Fillea posta come allegati.

La Fillea, pur senza chiamare esplicitamente in causa la Fiom, deplora il fatto che “a incentivare dinamiche di concorrenza sleale e massimo ribasso su diritti e tutele, e sulla sicurezza possano essere CCNL sottoscritti da altre categorie degli stessi sindacati confederali”, definendole peraltro “prive di rappresentanza al riguardo dei lavoratori direttamente interessati”, dato le/i restauratrici/tori sindacalizzati sono iscritte/i ai sindacati edili.

La Fillea, che un tempo nel dibattito interno alla Cgil veniva fortemente criticata dai dirigenti della Fiom per la sua pratica concertativa e moderata e che non a caso è oggi diretta dal segretario generale Alessandro Genovesi, esponente della corrente “antilandiniana”, afferma che “si pone un tema di coerenza tra quello che si scrive e si dice e quello che si pratica concretamente nei rinnovi contrattuali”.

La Fillea chiede alla Cgil di “attivarsi a tutti i livelli al fine di salvaguardare il rispetto dei perimetri dei CCNL dell’edilizia” e impegna tutti i dirigenti della categoria a riproporre i contenuti dello stesso OdG in tutti gli organismi confederali. Si è dunque profilato un tema che rischia di animare la prossima “assemblea organizzativa” della Cgil che dovrebbe riunirsi a Rimini nei prossimi 10, 11 e 12 febbraio, che altrimenti non sarebbe che stata il solito palcoscenico sul quale mettere in scena il presunta unanimismo burocratico della Confederazione.

La categoria dei restauratori, peraltro, pur essendo relativamente esigua (poche decine di migliaia di addetti, circa 30.000 secondo alcune stime) è comunque una categoria piuttosto ambita, perché composta da lavoratrici e lavoratori per lo più giovani e con un livello culturale mediamente assai elevato. Non a caso la Fillea, nel corso degli ultimi venti anni, ha reclutato in questo bacino numerosi giovani quadri che sono stati molto utili nel ringiovanimento e nella “femminilizzazione” di un apparato che fino ad allora era centrato solo sugli operai edili.

Lo scontro più o meno sordo o più o meno esplicito che ci sarà nella Cgil tra la Fillea e la Fiom si concentrerà non solo sulla preoccupazione di salvaguardare le condizioni normative e salariali delle lavoratrici e dei lavoratori del restauro, ma anche sulla possibilità di controllare questo bacino di adesioni.

Il ogni caso questa vicenda, nella quale anche una “benemerita” organizzazione confederale si è voluta coinvolgere nel far west della contrattazione al ribasso, riporta in primo piano la necessità di una norma di legge sulla rappresentanza che consenta la più ampia libertà nella scelta chi sarà incaricato di rappresentare le lavoratrici e i lavoratori, senza rendite di posizione, e che garantisca loro anche precise e democratiche modalità di ratifica degli accordi sottoscritti.